Sunday, June 27, 2021
A proposito della mostra Painting is Back, Anni ottanta la pittura in Italia.
Non senza una qualche difficoltà mi accingo a scrivere queste brevi note sulla mostra in corso alle Gallerie d’Italia dal titolo certo impegnativo sulla pittura degli anni ottanta in Italia. Avrei preferito non farlo visto il rilievo piuttosto basso e l’inconsistenza della mostra, poi mi sono deciso a intervenire poiché credo di trovarmi ancora in un paese libero di esprimere un’opinione, un giudizio anche se in disaccordo con il potere dei media e con le pratiche istituzionali dell’arte.
Il titolo della mostra Anni ottanta la Pittura in Italia è indubbiamente interessante e certo risveglia umori, questioni e discussioni ancora attuali. Il catalogo pubblicato da Skira è imponente e ampiamente illustrato anche se confuso e con immagini scadenti, sembra un libro di fumetti per ragazzi. Contiene comunque una ricca documentazione di quel periodo. Esso poi, piuttosto che rivelare le scelte critiche del curatore, quasi le nasconde offrendo una qualità delle immagini bassa e un’impaginazione confusa di documenti, foto di archivi, recensioni e locandine con il risultato finale di una grafica del volume pasticciata da sembrare più una grafica da rotocalco o da vecchio fotoromanzo piuttosto che un catalogo essenziale.
La mostra alle Gallerie d’Italia è a cura di Luca Massimo Barbero. L’avevo scambiato per Alessandro Barbero il noto storico medioevalista e forse sarebbe stato meglio che fosse stato lui. Certamente uno storico come il più noto Alessandro Barbero avrebbe fatto meglio da un punto di vista oggettivo e storico. Ma veniamo a Luca Massimo Barbero, il suo testo è ben fatto e si vede che è uno storico dell’arte e sembra non trascurare niente di ciò che negli anni ottanta è accaduto nella pittura. Il testo che scorre didascalicamente all’interno e nella parte centrale del catalogo confondendosi con i documenti e le immagini di repertorio, riporta perfino le notizie delle mostre più banali della pittura di quell’epoca. mentre mancano mostre importanti in spazi istituzionali. Certo la mostra può considerarsi un prologo di una mostra più ampia di quelle vicende. I quarant’anni trascorsi sono ancora molto pochi per fare una storia seppure parziale della pittura degli anni ottanta. Viviamo ancora in quel periodo e l’onda lunga della pittura di quell’epoca non si è ancora esaurita come sottolineava in un celebre film dal titolo Basquiat dedicato a Jean-Michel Basquiat, morto per overdose di eroina nel 1988, un pittore come Julian Schnabel.
Oggi bisognerebbe parlare di un ritrovato neo modernismo come sottolineava un pensatore come Fredric Jameson nel suo libro postmodernismo il quale sembra essersi sbarazzato di quel che per tanto tempo abbiamo chiamato il post-moderno. E’ proprio nella chiave di un nuovo modernismo (neo-moderno) che possiamo ricomprendere con lucidità ciò che qualcuno in maniera arbitraria ha chiamato la Weltanshauung degli anni ottanta, scomodando uno dei più grandi pensatori dell’era moderna Martin Heidegger, il quale ha scritto quel saggio incomparabile dal titolo L’origine dell’opera d’arte. Credo si rivolti dalla tomba. Sì, perché ciò che Luca Massimo Barbero scrive e riporta sulla pittura degli anni ottanta non è una nuova visione del mondo o una dimensione post modernista della storia e il conseguente superamento delle avanguardie né un mescolamento fertile di pratiche, di generi, né un nomadismo, ma piuttosto una nuova alleanza fra media e comunicazione, spettacolo e cultura non priva di conseguenze nel panorama dell’arte italiana.
La svolta chiamata dagli storici degli studi di cultura visuale iconic turn o pictorial turn aveva riabilitato l’immagine come oggetto di indagine, di dignità pari a quella del linguaggio. Fu questo l’ancoraggio teorico di quel ritorno promiscuo alla figurazione a fornire un alibi a quella cattiva pittura, a quel modo superficiale di riproporre la tradizione. Se non si comprendono le conseguenze di questa svolta rispetto a the linguistic turn teorizzata dal filosofo Richard Rorty che aveva influenzato l’arte concettuale degli anni sessanta, non si comprende bene perché quegli artisti abbiano avuto un certo successo in quel disarticolato panorama di tendenze e di mode che il curatore ha messo in mostra alle Gallerie d’Italia. Non fu, dunque, un passaggio senza conseguenze, una stagione dell’arte italiana che trasmetteva un segnale di fiducia di ritrovata armonia, ma una specie di modo quasi tribale di dimenticare, far fuori il nemico all’interno di una società postmoderna articolata in tribù, come aveva scritto un sociologo come Michel Maffesoli.
Il percorso della mostra appare celebrativo, descrittivo delle logiche di quel tempo. Esso è ondivago e privilegia un solo punto di vista quello degli artisti della transavanguardia. Tutti gli altri fanno da cornice. Gli accostamenti fra un artista e l’altro non sono solo arbitrari, ma funzionano secondo il criterio della nomea degli artisti celebrati. Molti di loro non hanno niente a che fare con la pittura ma ne sono la farsa, il tentativo di riavvicinamento alle temperie di quegli anni. Il ritorno al quadro negli anni ottanta non fu un vero ritorno alla tradizione o soltanto un riflusso, una reazione edonistica agli anni settanta caratterizzati dalla selvaggia lotta politica, dal terrorismo, dalle uccisioni per strada ma un allinearsi al mercato, un inizio di un cammino in sentieri ben individuati verso il totale disimpegno morale, etico e non come nei sentieri erranti nella selva di Holzwege, dove improvvisamente si scopre una radura.
Gli anni ottanta sono stati anni in cui le logiche performative, l’abbandono di ogni interrogazione sul senso del proprio fare hanno annullato ogni cosa, anche i veri tentativi di analisi critica e ritorno alla tradizione pittorica che in quegli anni si andavano a fatica sviluppando. Gli anni ottanta per la pittura che viene messa in mostra alle Gallerie d’Italia, tranne in alcuni casi, non sono stati gli anni del ritorno al gioco, all’ironia, al mito, ai valori plastici del novecento italiano, della supremazia della pittura italiana, né quelli del riflusso e della contaminazione fra linguaggi, fra arte povera e pittura ma quelli dello sberleffo, della derisione, dello smontamento di ogni teoria, di ogni traccia di riflessione estetica e filosofica sull’arte. Anni di una forma di primitivismo fumettaro, di un rimbambimento generale, di una evasione dalla realtà, di una pittura semplicistica fatta di bambolotti mal dipinti e non di una dimensione antropologica, antropocentrica della pittura.
La domanda che bisognerebbe porsi, dopo aver visitato questa mostra sarebbe semmai: di quale pittura si sta parlando? Forse quella del mercato? La tendenza e la volontà per la maggior parte dei pittori che il curatore celebra tanto, soffermandosi su ognuno di loro come a giustificarne le scelte era quella di celebrare i riti dell’apparizione, del protagonismo e raggiungere posizioni preminenti nelle classifiche delle vendite, nel nuovo mercato finanziario, favoriti in questo da certe riviste, come Flash art, da qualche banca che cominciava ad investire sull’arte contemporanea e dal clima modaiolo di quegli anni. Il che ha accompagnato i riti della pittura che si voleva a tutti i costi imporre e che doveva essere dominante. Quella degli anni ottanta non fu una dimensione di una ritrovata energia creativa che coinvolse tutta la provincia italiana ma solo un provincialismo mediocre esercitato da una visione centralista e accentratrice dell’arte che aveva come riferimento Roma, Bologna, Milano sfiorando appena Napoli.
Bisognerebbe dire che la vera periferia si manteneva volutamente a distanza, ai margini di quel sistema, come a piè pagina di un libro già scritto del quale si conoscevano già l’inizio e la fine. Le vere pratiche della pittura, il suo genius loci come veniva chiamato in quegli anni erano altrove, nel profondo sud, in Calabria, in Basilicata, in Sicilia, in territori ancora da scoprire. Ed era in quei luoghi che sostavano alcuni critici come Filiberto Menna e dove si sperimentavano nuovi modelli di ritorno alla pittura d’immagine con una forte componente mitologica ed europea. Ma questo Luca Massimo Barbero non può saperlo così coinvolto in uno schema centralista che ormai tutti conosciamo e naturalmente si ferma a Napoli, a un gallerista di rilievo come Amelio che aveva ospitato nella sua Galleria Beuys e Warhol, e che fu un riferimento per molti giovani del sud, oppure fa la cronaca delle Biennali di Venezia degli anni ottanta. Biennali estremante dominate dalla politica e dai giochi di potere del sistema dell’arte che già da allora si andavano delineando.
La lotta poi fra i critici socialisti come Achille Bonito Oliva, Renato Barilli, Flavio Caroli, solo per citarne alcuni, per accaparrarsi un posto al sole e lanciare la loro brigata di artisti con sigle sempre più evocative e affascinanti come i nuovi nuovi, i citazionisti, gli anacronisti, i neo futuristi, magico primario, la scuola romana e altro furono feroci e aveva escluso critici come Filiberto Menna, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi che pure ebbero una parte importante nella dimensione critica al post-modernismo.
Gli anni ottanta dovevamo essere una liberazione dagli anni bui e dalle ideologie; corrispondere a una svolta, a un ritorno alla pittura consapevole, etico e rispettoso della storia e della tradizione e sono stati invece un coacervo di tendenze che molte volte con la pittura italiana del ventesimo secolo non avevano niente a che fare se non sul versante di un recupero neoespressionista. Concordo con Barbero sull’importanza che ebbe una mostra del novembre 1979 come quella delle stanze nel castello diroccato di Genezzano curata da ABO dove si comprese quale dovesse essere il ritorno alla pittura. E’ lì che avvenne l’ibridazione innaturale ma certo destinata a un certo successo, fra pittori come Cucchi, Clemente, Chia, Paladino e gli artisti che provenivano dall’arte povera come Mario Merz, Kounellis, Zorio. In realtà si stavano tutti riciclando. Io avrei aggiunto la mostra del 1986 della collezione Franchetti di Roma sempre al Castello di Genazzano dal titolo: Sogno italiano sempre a cura di ABO e con un ottimo catalogo di Giampaolo Prearo editore.
Che dire poi della trasversalità della mostra che non vuol dire proprio niente. Quella che si mette in onda nelle sale delle Gallerie d’Italia non è trasversalità, contaminazione, gioco, ironia, gioia ma semplicemente un mettere insieme pittori che usano linguaggi e pratiche differenti (un tempo queste mostre erano chiamate collettive). Che cosa ha a che fare un lenzuolo steso sulla parete e mal dipinto con attaccati sulla sua superficie dei frammenti di specchi di Enrico Baj, addirittura definito opera monumentale con un’opera di Mimmo Rotella e di Mondino, o che cosa ha a che fare un piccolo quadro di Carol Rama, una miracolata della pittura, con l’installazione dello Studio azzurro, un dipinto di Paladino con un quadro di Franco Angeli, un Ontani con Schifano? Per giustificare attraversamenti di questo genere ci vuole bene altro che fare la cronaca accreditata da Flash arte (all’epoca vendeva la sua rivista in tutti i luoghi dell’impero) e da qualche Galleria, sarebbe come arrampicarsi sugli specchi. Si torna sempre indietro come dovrebbe veramente fare la pittura nei suoi pentimenti, non come fa questa mostra con painting is back.
Infine questa mostra è diseducativa non aiuta a saper guardare, comprendere, ragionare, pensare E’ retorica, quasi una cronaca dell’epoca a cui tutti abbiamo assistito attraverso una serie di mostre che hanno censurato il dibattito, il vitalismo e altre vie. Essa non dice la verità ma si sviluppa come un elenco delle tendenze vincitrici dell’epoca nelle pratiche mediali della comunicazione di massa, della spettacolarizzazione, dell’evasione di massa dalla video arte a pittori come Tatafiore, a mio parere una piccola perla nel bailamme generale. Elenco, fra l’altro già conosciuto di artisti italiani che negli anni ottanta erano in voga e ce l’hanno fatta, come si diceva a quell’epoca sull’onda del ritorno alla pittura. Ciò non vuol dire ormai un bel niente se non il fatto che questo successo poi infine non c’è stato se non nei bollettini di guerra di alcune gallerie e riviste di tendenza. Proprio quel mercato cui quei pittori puntavano li ha scacciati dal tempio che ora Luca Massimo Barbera sta ricelebrando in questa mostra con acutezza certo degna di uno storico, ma senza quell’analisi di senso, quella dimensione oggettiva dello sguardo che sa osservare e interpretare, quella ricerca della verità che il mondo dell’arte ora richiederebbe. Ben altri problemi si pongono per la pittura contemporanea, e altre responsabilità. Abbiamo trascorso la nostra giovinezza a studiare nel licei, nelle Accademie di Belle arti, nelle Università apprendendo e imparando a pensare che la conoscenza e il sapere dell’arte fosse soprattutto ricerca della verità, impegno morale dell’artista rispetto all’opera, etica della responsabilità imprescindibile dal farsi stesso dall’opera. Che dire, a che cosa è servito? Ci siamo forse sbagliati? Non basta la risposta che l’arte sia al di fuori di ogni morale e che l’opera cerca il suo destino come una freccia lanciata nello spazio. Queste sono semplici sciocchezze o banali licenze poetiche.
Dobbiamo concludere considerando che certo questa è una mostra di una collezione privata quella della Banca Intesa che non è un luogo istituzionale, come un Museo di arte contemporanea anche se ci vuole provare, pertanto le scelte sembrerebbero libere e non imposte ma questo non vuol dire che non si debba avere una responsabilità etica a cui tutti noi siamo chiamati a rispondere verso gli spettatori, gli altri, i giovani, chi guarda e non conosce bene le cose del mondo dell’arte. Anche una Banca come Banca Intesa non può sottrarsi a questa responsabilità esponendo una propria collezione senza uno sguardo oggettivo, un’etica dello sguardo e un criterio curatoriale imparziale e rispettoso delle differenze. Il criterio adottato dal curatore sembra essere solo quello dell’inclusione ed esclusione, della nomea dell’artista e del mercato.
La risposta non può essere quella dello spazio limitato che non avrebbe potuto accogliere un ampio panorama della pittura degli anni ottanta. Magra risposta. D’altra parte ci vuole ben altro per far parte delle cerchia ristretta del vero mecenatismo che ha avuto in passato protagonisti illuminati, i quali hanno fatto la gloria della pittura italiana nel mondo. Ma non importa. Io suggerirei alle Gallerie d’Italia di Banca Intesa per la prossima mostra sulla pittura di nominare un virologo.
Immagini:
0 - Francesco
1 - La sede delle Gallerie d’Italia
2 Una delle sale
3 Luca Massimo Barbero
4 Enzo Cucchi, le stimmate, 1980
5 Flash art
6 Una delle sale con Schifano, Clemente e De Maria
7 Edoardo Sanguineti
8 Copertina del libro di Jameson
9 Aldo Mondino, ritratto, 1980
10 Fernando Aguiar, poeta sperimentale portoghese
11 Cy Twombly, Achilles mourning the death of Patroclo, 1982
12 Tano Festa, gli amanti, 1984
13 Francesco Correggia, Giallo archè, 1979
14 con alcuni miei libri
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Grazie per la chiarezza delle tue parole "Molti di loro non hanno niente a che fare con la pittura........ Il ritorno al quadro negli anni ottanta non fu un vero ritorno alla tradizione o soltanto un riflusso, ....... ma un allinearsi al mercato, un inizio di un cammino in sentieri ben individuati verso il totale disimpegno morale, etico....
ReplyDeleteIl tuo GIALLO ARCHE' nella sua esplosione materica e poetica, puo' a tutti gli effetti essere considerata come frutto di una consapevole volonta' di rutorno alla pittura e alla sua complessità etico-filosofica.