Tuesday, April 30, 2019











Fuori dal coro di Francesco Correggia


Riflessioni sui Musei dell’arte moderna e contemporanea di Milano

Il Museo del Novecento


I direttori e i curatori che si succedono alla guida di Musei importanti dell’arte moderna e contemporanea impongono le proprie stravaganti idee sull’arte e su come debba essere osservata e compresa badando soprattutto alla comunicazione e al marketing.   Le commissioni o comitati che dovrebbero operare scelte oggettive, dare pareri secondo criteri trasparenti, inoppugnabili e leggibili sui progetti delle mostre, sui libri da presentare sono invece l’espressione di valutazioni poco scientifiche e spesso di parte. 


Ne è un esempio palese il Museo del Novecento a Milano. Nato secondo ottimi principi da un punto di vista storico e di rapporto con la città, il Museo del Novecento doveva essere, almeno nelle intenzioni, un contenitore storico, un sistema distributivo e museale semplice e lineare. Lo scopo era quello di restituire un’immagine forte, così da trasformarlo in uno dei luoghi privilegiati della cultura a Milano. 


 


Questi nobili propositi sembra non siano stati raggiunti. Il Museo del Novecento non è stato all’altezza dei suoi compiti istituzionali e non è stato capace di offrire un panorama limpido e oggettivo sull’arte del novecento. Le ragioni possono essere molte, una delle quali è il ruolo che ha assunto in questi ultimi anni la commissione scientifica. La direttrice del Museo Anna Maria Montaldo che dovrebbe farsi portatrice di un progetto, di un’idea sull’arte moderna e contemporanea e su quella che è stata la storia di Milano o almeno dare indicazioni su come valorizzare le collezioni e l’archivio dipende dai voleri e dai capricci della succitata commissione a cui delega qualsiasi scelta sulle mostre temporanee e sui criteri espositivi da attuare. 

 


E’ questa commissione che decide il programma espositivo, chi deve fare le mostre e a chi dare la sala per la presentazione dei libri, le conferenze, gli eventi. La domanda è: secondo quali criteri? Quel che è peggio è che alcuni di loro non hanno un curriculum all’altezza dell’incarico,  mai scritto un libro sull’arte o sull’estetica  di una certa rilevanza. Alcuni sono Professori dell’Università, qualcun altro insegna Storia dell’arte ma questo non basta ad accreditarli come super esperti, in un mondo che cambia in continuazione. Le loro decisioni in merito alle mostre da ospitare sono quasi sempre arbitrarie e senza alcuna logica culturale.  Si limitano a rispondere: la mostra per il momento non è nei progetti del Museo. Ben poca cosa.   

 

 Questi strani personaggi che con presunzione fanno parte di commissioni che dovrebbero garantire l’imparzialità e il rigore di così nobili Istituzioni non hanno alcuna competenza eppure ne governano le scelte con il loro sì o il loro no. Chi li ha chiamati a quel compito così importante? Da chi sono stati selezionati e secondo quali principi ? 

 

Sappiamo bene: il criterio è sempre lo stesso, quello della gestione politica, delle famiglie che contano, dell’amicizia personale, dei favoritismi, insomma della politica nostrana.  Così sembra tutto normale; si favoriscono i più potenti, quelli conosciuti cui non si può dire di no oppure l’outsider immacolato, considerato puro e ingenuo mentre si distrugge ignorandolo l’altro, lo studioso, colui che ha un comportamento serio e che non si sottopone alla crudeltà di un sistema vergognosamente di parte. Il rigore analitico, posizioni e ragioni differenti rispetto all’uso convenzionale del potere sono sottoposti ad una censura feroce da parte di questi esperti che millantano una conoscenza sulle cose dell’arte e del suo mondo inoppugnabile e che non può essere messa in dubbio. Se poi si comincia a scrivere e a dichiarare il proprio disaccordo si viene esclusi, bollati, marcati con l’appellativo di sconosciuto.  

 

La conseguenza di tutto ciò è che si espongono collezioni e donazioni ritenute di prestigio, non sempre a ragione, mentre si escludono quelle per cui, pur essendo parte dell’archivio del Museo, non c’è interesse. Donazioni già accettate dal Museo e che sono ormai patrimonio della storia dell’arte, storia di Milano, dei suoi collezionisti delle sue vicende artistiche vengono escluse senza alcuna logica. Nelle sale espositive sia quelle temporanee sia permanenti si mostrano opere di artisti importanti accanto ad artisti mediocri che non hanno mai inciso nel mondo dell’arte. Nella sala chiamata dei nuovi allestimenti sullo stesso percorso espositivo troviamo le varie declinazioni della pittura: le esperienze Pop, il Realismo Esistenziale, i dipinti analitici e concettuali. L’allestimento delle opere non risponde a un criterio di scientificità in base ai contesti e alle situazioni differenti in cui gli artisti si trovavano ad operare, ma ad una casualità artificiosa, un quadro dopo l’altro, un’istallazione lasciata sul pavimento vicino ad un quadro esposto sulla parete, senza alcun rapporto tra loro.

 

 Opere di una certa rilevanza sul piano internazionale con registri poetici, formali ed espressivi già codificati dalla storia sono messe accanto ad opere che non lo sono.  Si fa un mescolamento indistinto che non fa comprendere bene gli sviluppi dell’arte della seconda metà del novecento. Un Istituzione come un Museo non può permettersi di farlo. Viene il sospetto che si favoriscano gli amici di qualche membro della commissione, qualche parente, l’artista cortigiano, il vicino, qualche gallerista, lasciando fuori gli artisti del Novecento che hanno veramente contato sul piano della loro presenza e ricerca.  Così la santa alleanza tra il potere costituito dalle logiche familiari e politiche, le Istituzioni museali dell’arte contemporanea sembra chiudere il cerchio dell’arroganza e inettitudine. 


 


La violenza e le falsità non circolano solo nel web o nei canali televisivi ma dilagano in maniera oscena in tutti gli ambiti del sapere.  Coloro che non si fanno sottomettere, gli artisti che pensano, si oppongono, scrivono sono messi al bando, Essi devono essere isolati, ignorati, a volte eliminati.  Le riviste e i periodici che pubblicano notizie e articoli sull’arte contemporanea non fanno che da cassa di risonanza alla mediocrità delle mostre aumentando la distanza fra la banalità e il pensiero sull’arte, la pratica riflessiva, l’estetica come prassi umana di libertà. Tali riviste non fanno che riproporre la standardizzazione, l’andar per arte senza sapere in quale direzione e con quale sguardo. E’ un circo della menzogna fatto di fiere, aste, rassegne importanti e meno importanti che s’impone con violenza nascondendo la vera essenza dell’arte. E’ ciò che il nostro Museo non fa altro che accreditare. 

 

 Le mostre abbondano senza alcuna misura, senza criteri, teorie, ricerche. Nessuno si preoccupa della loro validità, della loro coerenza storica critica. Siamo costretti ad assistere senza poter reagire a questo scempio. Gli approfondimenti e l’esercizio della critica ormai vengono rapidamente messi da parte perché considerati dannosi.  Questa ferocia espositiva insieme alla censura per chi la pensa in maniera diversa divorano la semenza dell’innovazione e del cambiamento.

 

Questo purtroppo è lo scenario dell’arte in questo bellissimo paese.  L’unico modo per reagire a tale ferocia e inettitudine sarebbe una svolta teorica, etica ed estetica.  Solo in questo modo potrebbe capovolgersi l’ottica negativa con cui la commercializzazione dell’arte, l’ignoranza e la mancanza di competenze hanno ridotto  a brandelli il mondo dell’arte sottomettendolo alla globalizzazione finanziaria, allo sguardo neutro del turismo di massa e alla moda.

 


Quel che ci vuole sarebbe un pensiero sull’arte che origina dalla sua dimensione ontologica, dal suo spirito, dal suo porsi come interrogazione e dimensione etica, come approfondimento della storia e della sua influenza. Per un Istituzione così importante per Milano come senz’altro è il Museo del Novecento, ciò vorrebbe dire una svolta sul piano della selezione delle mostre e degli eventi, renderne trasparenti i criteri, ricollegarsi allo spirito e all’humus critico artistico della storia della città. Soprattutto bisognerebbe verificare la trasparenza e la scientificità della commissione scientifica. Almeno questo.   

 




Didascalie immagini
1       Francesco Correggia.  Fermo immagine dal Video Duel 2006
2       Museo del Novecento, vista sul duomo
3       Al centro la direttrice del Museo con il Sindaco
4       Una delle nuove sale espositive, in fondo un’opera di Kounellis
5       Pipilotti Rist,  fermo imagine , dal Video Japsen, Der Wahn 1985
6       La sala con un’opera di F. Clemente
7       Furla-series-museo-novecento-contemporaneo-moda-rituale
8       C. Newman, fermo immagine dal video, 1986
9       A. Boetti, il muro, 75 elementi, tecnica mista 1973-1992
10    J. Kosuth, qualitative,
11    V. Wolfl, fermo immagine dal video, 1979
12    Sala Fontana
13    Francis Alys, Paradox of praxis, 1997


Friday, April 12, 2019

Arte, scrittura e oralità nel mondo dei media


                           Arte, scrittura e oralità nel mondo dei media

                                     
                                Richard Prince, 1994

La domanda che mi pongo  sempre più spesso è:  che fine ha fatto l’opera d’arte, chi l’ha fatta sparire ?  E’ come se tornassi sul luogo di un delitto  a cercare le tracce dell’assassino o su quel che è sfuggito all’indagine. Oggi l’arte non è mai stata così divulgata, esposta, deposta. Essa è dappertutto oltre che nelle fiere dell’arte e nelle aste internazionali;  è  nelle fiere del mobile, del design, nelle sfilate di moda, nei manifesti pubblicitari, nelle città. E’ un trionfo dell’estetica, delle immagini e di conseguenza  dell’arte quindi la domanda sembrerebbe senza senso. Eppure non è così. La  maggiore diffusione dell’arte corrisponderebbe proprio alla sparizione della sua essenza come  prassi umana di liberazione, della sua irriducibilità e del suo fondamento. Dire che l’arte è dappertutto in un processo di estetizzazione  generale corrisponderebbe a dire che niente è arte. Dove si nasconde il maledetto omicida o è forse la stessa  domanda che gli artisti contemporanei si pongono ovvero  che cos’è arte, che ci ha disorientati rendendoci colpevoli ?  Forse non si è trattato di un delitto come scrive Jean Baudrillard a proposito dell’uccisone della realtà e della sparizione dell’arte  ma di un suicidio consapevole, le cui tracce risalgono  all’interno stesso dell’arte moderna.

                                            
                                                   Anselm  Kiefer Paete-non-dolet-2008

Trovo che l’argomento sia oggi di grande attualità in mancanza di un linguaggio, di una perdita di orizzonte o di segno scritturale che recuperi la dimensione del senso, l’individuazione della realtà posto che ne esista una e la stessa questione dell’opera. La letteratura e la filosofia erano i testi su cui gran parte della tradizione e anche del pensiero moderno sull’arte si confrontavano nel tentativo di descrivere  e di far  mondo da parte degli artisti. Essi   erano  alla ricerca di teorie, di linguaggi sperimentali poiché le scelte sulle  pratiche  comprendevano appunto un pensare, un rivolgersi al pensiero sull’arte e alla sua parola. Ora questo universo sembra decisamente sepolto.  
 
                                                 Andres SerranoMorgue  1992


La conseguenza di tale  sparizione è stata che ora guardiamo le cose dell’arte e del suo proporsi senza alcun  rapporto con la sua dimensione etica e la stessa storia. Si veda a proposito il mio libro: Le diarchie dell’arte fra etica ed estetica pubblicato da Mimesis nel 2014.  Ciò che osserviamo nella giungla espositiva di oggi è che tutto si somiglia, tutte le cose dell’arte sembrano uscire da un medesimo salotto, un tempo si chiamava atelier. I quadri, le installazioni, le fotografie, le performance, l’arte ambientale, sciale  e relazionale hanno perso qualsiasi profondità, qualsiasi distinzione dal resto delle cose, qualsiasi  spirito critico e ricostruttivo del senso dell’opera. Essa è sparita e con essa sono sparite anche le sue parole, e va bene così, non bisogna poi alterarsi per una questione che oggi è  di così poco conto. Siamo ricaduti in una specie di simbolismo prescientifico, di oralità secondaria e sembra che tutti ne siano soddisfatti. La banalità ha livellato tutto in una dimensione turistica dell’arte anche se al contempo ha  appiattito le nostre menti rendendole incapaci di pensare.  Che vogliamo di più ?

                                             Tony Cragg  Tongue in Cheek

Tempo addietro avevo in mente di scrivere una specie di  archivio di parole da salvare, da transitare  nel nuovo millennio. Parole che conservavano una loro profondità e che non potevano essere anestetizzate. Esse avrebbero dovuto testimoniare il tempo, l’importanza del verbo, la significazione stessa; parole  da traghettare  nel futuro. Le vedevo come gocce di sangue che si depositavano nascoste sul mondo mentre  le cose mutavano. Mi ritrovai invece a scrivere intorno all’opera d’arte, alla sua genealogia, al suo rapporto con le immagini. 

                                                 Francis Bacon, Three Studies for Self-portrait, 1976
La passione per la scrittura mi divorava. Avevo bisogno di scrivere, non per diletto o per ricongiungermi agli altri per una sorta di supponenza autoriale o per consegnarmi agli editori ma per necessità, per forzare la pittura, per ricercare possibilità inesplorate, per scrivere sull’arte come un critico o un curatore non avrebbero mai potuto scrivere.  Ne avevo già abbastanza con i galleristi, figuriamoci con gli editori. Ciò che mi possedeva era invece una necessità legata anche al lavoro di pittore.

              Hans Holbein il giovane cristo-nella-tomba 1521


Tale necessità derivava da una constatazione, l’assenza, oggi e non ieri,  di qualsiasi identità interpretativa sull’origine dell’opera d’arte. Sembrava che l’esercizio critico con l’arrivo della miracolosa locuzione arte contemporanea fosse del tutto  sparito. Bisognava fare ammenda del passato, del modernismo, della storia  e far parte di una delle scuderie di curatori, artisti santoni e  di nuovi manager dell’arte. Si, qualcuno mi dirà, era così anche nel passato negli anni sessanta settanta. Devo dire essendone stato un testimone che non era così. L’artista era ascoltato e tenuto in considerazione per le sue indagini critiche e analitiche sul rapporto tra apparizione e realtà, visibile e invisibile, sulla letteratura  e il grado zero della scrittura.  Fare pittura per qualcuno che appunto avesse voluto  farla in profondità significava ancora  agire all’interno della visione, dell’immagine o di ciò che sta dietro l’immagine, alternando il proprio lavoro con la scrittura, la lettura e non rincorrere l’ottica del mercato. Di quegli anni ormai non rimane che la celebrazione  rituale delle vendite on line, delle aste, del mercato e le aste prestigiose. I nomi ripetuti per qualsiasi occasione sono sempre quelli.     Per carità il mercato dell’arte con i suoi valori, le sue bolle speculative e finanziarie  non è da condannare ma non può essere tutto qui,  in una giungla di venditori, falsari e intermediari come scrive Donald Thompson in Bolle, Baraonde e avidità, libro  pubblicato di recente 

 
 Roni Horn, Key and Cue, No. 288, 1994–2004.



In questo senso scrivere testi per un artista  non è una scappatoia, una sconfitta, o una ritirata ma un esercizio fondamentale di approfondimento, un’analisi  ininterrotta che risponde all’assenza di giudizio, di storia, di fondamento, un sottrarsi al buco nero della sparizione dell’arte. La parola scritta può rappresentare un punto importante nella nostra relazione con il mondo. Forse è anche una questione di identità, una contrapposizione al dominio visuale. I libri sono una metafora del viaggio, sono il centro del mondo. La domanda che si dovrebbe porre ad un artista è proprio questa: quali sono i tuoi libri?  E non quale tecnica stai usando.

 
 Wunderbare, alte Bücher, old Books

Scrivere un libro è ancora qualcosa di diverso, non è come stampare parole da inserire sulla superficie pittorica, ma una pratica di senso affine alla pittura: una pratica linguistica e visionaria che fa della parola una specie di comandamento, di presenza. E’ sempre la scrittura che comanda le parole e non viceversa. Scrivere vuol  dire lasciarsi guidare da quel flusso ininterrotto di parole e immagini che non può avere padroni e che pure va organizzato, risistemato, ricontrollato senza che vada sprecata una sola goccia di desiderio, di volontà, di possibilità. E’ così che il libro prende forma.

 
 Sylvie Blocher  la violence c'est le lisse,  2011

La scrittura  sembra fare a meno della pittura, anche se lo scrittore molte volte fa riferimento  al vedere e alle opere dei pittori, come se dovesse in qualche modo richiamarsi allo sguardo,  giustificarne l’assenza. Il fatto è che ciò che sembrerebbe mancare alla scrittura e che la pittura possiede  è visibile nella parola, nella sua alterità, direi nel suo sguardo proteso verso l’invisibile. La verità è che non c’è una differenza sostanziale tra pittura e scrittura, da un punto di vista della genealogia dell’opera, bensì solo un’asimmetria linguistica, una differenza di sguardi. 

 
Il buco nero fotografato di recente


Pittura e scrittura hanno sì le proprie regole, pratiche, materiali e contesti differenti ma poi nel loro fondo finiscono  per richiamarsi,  rimandarsi, rispondersi  in maniera del tutto sorprendente   nella dimensione stessa  del farsi dell’opera. Ciò che le accomuna  è il senso dell’opera, l’asimmetria fra parola e sguardo  come questione inscindibile dal senso d’essere, l’opera come sostanziale trasversalità illuminante. L’opera pittorica non rimanda solo allo sguardo, ma alla sua nebbia, al suo tastare l’invisibile. I pittori vedono l’invisibile  a cui manca la parola mentre lo scrittore fa intra-vedere ciò che allo sguardo sfugge e che la parola della scrittura sembra portare alla luce.

 
 Sophie Rickett studium landascape 2003


 Non può esserci differenza d’intensità fra l’opera pittorica e l’opera letteraria, scritturale. Al centro c’è sempre il testo ma anche  l’aporia. Si tratta di una dualità che non può arrivare ad una sintesi. Essa emerge da un doppio testo, quello visivo e quello verbale; sta all’incrocio. Ma c’è qualcos’altro  a  cui  il curatore o il critico letterario  non potranno mai avvicinarsi e che gli scrittori e gli  artisti possiedono: la  solitudine,  la  distanza dal mondo, lo sguardo zoppicante che costringe l’autore  a essere nel mondo in assenza di mondo.

 
Huang Yong Ping, 'Two Baits',   2012


Non sono mai stato un uomo pratico o almeno un uomo abituato a guadagnare dalle opportunità, dalla realtà, dalle convenzioni e scambiare  la mia esistenza con il denaro. Perciò vivo in un costante naufragio che mi fa essere  sgombro di acciacchi fisici e morali, fino a quando isole di senso e tasti della realtà inusitati mi portano a un approdo che a volte sembra una salvezza, ma che poi si rivela un’isola di morte. Questo tempo  dura poco poiché è forte la spinta verso un altro naufragio. La vera realtà è la pittura che non si può barattare. Essa è come un pensare, un saper cogliere l’essere, un sorvolo sulle cose del mondo  mentre si guarda il niente. Da questa prospettiva potrebbe esser proprio la pittura a scoprire la realtà, dissotterrarla e portarla alla visione.

 
 Jean_Baudrillard

 La pittura  è come un approdo possibile, un modo di vivere, un gesto che infrange le regole e dove niente è lasciato al caso, dove occorre la distanza, la sconfitta, l’amore, la sottrazione, la donazione. In maniera analoga nella scrittura c’è un cosmo che si dipana attraverso intrecci, sorprese, predizioni. Se il caos, l’avventura, la disseminazione sono coessenziali allo scrivere tuttavia la parola  fa di quei segni un universo dove la verità si mescola con l’ineluttabile ambiguità. Così essa rivela mentre nasconde, s’innalza mentre sembra deviare e cedere ad altri spazi. Se la scrittura cerca la lettura che scoraggia e a volte stanca, la pittura non indugia mai, continua in tentatavi estenuanti percorrendo strade difficili e complicate per fare vedere meglio ciò che solo il pittore sa riconoscere. 

 
  Raoul-De-Keyser.-euvre.-Installation-view- 2018.-


 Quando la scrittura rimane in attesa, paziente, lo scrivere la precede riversandosi su fogli, su taccuini improvvisati, su carte cotonate,  ovunque una superficie possa accogliere la sua ansia indistinta di testimonianza. E’ lo stesso che accade alla pittura quando l’artista prima del dipinto riempie di appunti, disegni, parole i suoi fogli, oppure quando dipingendo enti cerca di sviare l’osservatore dal comune guardare. Il suo gesto  rompe norme acclarate e consuetudini del vedere e sembra rispondere al che cos’è dell’arte.

 
Erwin Wurm she-living-sculptures, Middelheim 2011

  
La pratica dello scrivere si trasforma in un libro scritto quando l’indistinto esce dalla sua soglia obliqua e si tramuta in un cosmo, in un universo a cui il lettore può accedere, pur nell’interdizione della parola, la quale a sua volta si separa dalla voce divenendo segno, espressione del senso. Di conseguenza la scrittura, allora come adesso, non può che essere un disegnare, un portare luce in quelle zone d’ombra che s’incuneano fra un senso e l’altro, tra linguaggi e contesti. 


 
Oratorio

Se vogliamo tornare al perchè della sparizione dell’arte dobbiamo visitare il suo sepolcro. Levare la polvere dell’oblio, dal marmo dentro cui è racchiusa. Bisogna scrivere e fare pittura, guardare alla pittura del passato.   Dobbiamo soprattutto guardare all’opera come a un testo. Esso è un intreccio di luoghi, di  rimandi tra parola e  immagine, visivo e verbale,  tra tempo ed essere. Se pensiamo al testo come tessitura o come orizzonte della ipertestualità dobbiamo far riferimento alla trasformazione elettronica dell’espressione verbale. E’ essa che ha accresciuto quel coinvolgimento della parola nello spazio che era iniziato con la scrittura. L’ipertesto  ha innescato  una nuova cultura quella  di un ritorno all’oralità secondaria. Mentre l’oralità primaria era senza scrittura, evento puro, contatto fisico, suono e voce, l’oralità secondaria è il dopo della  scrittura che lascia la pagina del libro e si avvia  nel mare infinito delle scritture. La scrittura non ha chiuso del tutto con l’oralità.  Essa è ancora voce, suono che ripropone la parola dell’evento, dell’inizio,  è mito e universo, racconto e lettura che continuano a cercarsi, a bramarsi nel rincorrersi dei nessi, dei sensi.   L’ipertesto è la  nave che ci tiene ai bordi della navigazione in rete, in quel cambiamento epocale dove tutti i nostri sensi sono coinvolti e la voce si fa parola.


 
 Musella e Paolo Mazzarelli , Strategie fatali, dramma ironico, foto di Parollo

 Infine le pratiche della pittura come quelle della scrittura sono ridescrizioni del mondo,  non sono solo universi della rappresentazione visiva o letteraria ma  sono anche fatiche d’essere a cui non si può rinunciare. Sono un mestiere di vivere, come avrebbe detto Cesare Pavese e come pensava Mark Rothko prima che entrambi si suicidassero, come se neppure più la scrittura e la pittura avessero quel potere, tanto acclamato di liberarci dalle convenzioni, dal mal d’essere, dall’angoscia del vivere. Noi vogliamo fortemente pensare che sia la pittura sia la filosofia e la letteratura, anche nell’avvento delle nuove tecnologie, siano sostanze  imprescindibili del farsi dell’arte. Sono questi intrecci, queste sovrapposizioni che sottraggono l’arte alla sparizione e la fanno tornare ad essere il luogo della proliferazione di segni all’infinito, il luogo stesso del giudizio e della parola.  Amiamo ancora supporre che le scritture in web,  l’ipertesto insieme al ritorno dell’oralità quel potere di esprimere libertà e trascendenza, continuino a elargirlo  come una manna dal cielo, attraverso la scrittura e  lo sguardo, l’occhio e il suono, il detto e l’interdetto,    nonostante tutto.


                                   
 Dalla serie traslochi, Francesco Correggia, 2001