Friday, August 28, 2020

Dai racconti di Francesco Correggia : Tra un luogo e l'altro

Bruno Scozzafava decise di andar via dalla città dove aveva vissuto per tanto tempo per noia, inedia, malinconia. Non aveva ancora bene in mente una destinazione ben precisa. Nella sua mente giravano ancora immagini letterarie di città e paesi che aveva sognato o che aveva appena percepito tra i suoi viaggi. Ma non era questo che lo guidava ma solo la voglia di andare via, di cambiare luogo. Stava andando via, punto e basta. Il resto era affidato al caso. Il suo era uno stato simile a chi si riprende da uno stordimento. I suoi nervi, dopo aver attraversavano la piena incontrollata di un fiume, ora si sentivano, in qualche modo, pacificati con la terra ferma. Aveva deciso di prenderlo quel treno che lo portava lontano, finalmente in una città senza traffico, rumori, cartelloni pubblicitari, ristoranti ed effluvi di promesse. Il caso dunque e non una ferma decisione lo aveva portato a fare quella scelta incontrovertibile: partire per una città che non aveva nome. Bruno Scozzafava era arrivato alla stazione trafelato portando con sé appena una valigia e uno zaino. Scelse un treno qualsiasi fra quelli fermi e pronti a partire. Guardò a lungo il treno. Andava su e giù per tutta la sua lunghezza. Poi era salito a metà del percorso. Aveva preso un intercity Freccia rossa di quelli che li si vede sfrecciare veloci. Non guardò la destinazione. Si riprometteva di fare il biglietto in treno. Aveva informato il controllore che gli trovò un posto libero in un vagone quasi vuoto. Pagò il biglietto con la carta di credito e si sedette comodamente. Non aveva altro da fare che guardare. Sarebbe rimasto sveglio per tutto il viaggio e forse lì dov’era diretto non c’era una vera e propria stazione ferroviaria ma uno spiazzo dove si poteva scendere , attraversare il binario come si faceva un tempo ed essere in un luogo che somigliava ad una città e che forse era soltanto un agglomerato di case, un intreccio di strade, vie, piazze, edifici. Ma questa era la sua immaginazione che girava senza controllo nella sua testa. Bruno aveva calcolato il tempo che lo separava dall’arrivo, ma gli annunci erano quasi sempre uguali e monotoni, le stazioni sembravano identiche e niente riusciva a incuriosirlo, a invitarlo a scendere. Dirigersi verso Bologna o verso Venezia per lui era la stessa cosa. Erano solo nomi di città. Il treno partì in orario, all’inizio si fermò in qualche stazione ma poi prese velocità e dal finestrino si poteva vedere solo il turbinio dei luoghi che apparivano e svanivano. Bruno aveva provato a respirare l’aria dei luoghi, assaporandone la gradazione dei colori e le trasparenze del paesaggio. Nessuno poteva immaginare lo scenario del suo viaggio, gli orologi delle stazioni il via vai di viaggiatori instancabili, le valigie a rotelle, le giovani donne truccate come ninfe che sarebbero salite sul treno. Bruno si guardò intorno e vide uomini vestiti come barbari, alcuni indossavano abiti blu comprati ai negozi Coin, camicia bianca e cravatte a palline o a righe blu, altri portavano jeans e magliette attillate. L’intercity si fermò alla prima città del percorso. Bruno guardava i viaggiatori salire aspettandosi che qualche giovane donna con l’abitino corto e attillato si sedesse accanto a lui. Magari proprio davanti a lui così da poterla semplicemente guardare. Si sarebbe sentito il prescelto per una possibile avventura. Quel luogo così si sarebbe trasformato in uno spazio di fantasticherie, di immagini intime. Fra quelle poltrone numerate e assegnate al caso e alla fortuna dove lei avrebbe deciso di sedersi, lui avrebbe potuto osservarla meglio e per un attimo coglierne il lato segreto, la vulnerabilità. Avrebbe fantasticato, l’avrebbe denudata e amata, proprio lì in quel segmento di vicinanza. Poteva scendere nella stessa stazione dove la donna che lo ispirava sarebbe scesa. In fondo non aveva nulla da perdere. Il destino lo guidava. Bruno respirava a pieni polmoni. Espelleva dai suoi pensieri ogni aspetto della realtà che lo disturbava per sostare in quel divagare, in quell’intima capacità di trasformare l’immaginazione in realtà, in attimo vissuto. Stava correndo fra le braccia di una donna che abitava in una città senza nome, oppure si trattava di ciò che è destinato solo ad esaurirsi nel pensiero. Bruno non lo sapeva, attendeva solo che qualcuna prendesse posto davanti a lui. Erano salite molte persone su quel treno: un intercity che sembrava un regionale per le troppe fermate. A lui non importava. Bruno era un uomo di poche parole, alto con un fisico asciutto, una leggera calvizie e l’età indefinibile. Molto gentile nei modi, attirava fiducia per quella sua qualità di mettere tutti a proprio agio. La sua conversazione era brillante ricca di rimandi ed espedienti linguistici. Teneva il biglietto che era stato appena emesso dal controllore nella tasca della giacca da cui non si separava mai. La destinazione era la fine della corsa del treno, ma a lui non importava il nome di quella città dove si sarebbe concluso quel viaggio. Era solo una città, un’ipotesi possibile un nome fra gli altri. I nomi di città gli ricordavano le tante case dove aveva abitato. Un corpus d’immagini si faceva avanti e le città che vedeva sfilare dal finestrino non erano altro che nomi che aveva sentito nei bollettini metereologici, nomi a volte leggendari, raccontati e dispersi qui e là. Nomi che forniscono agli uomini ragioni o illusioni di stabilità. Ogni città è la rappresentazione fisica del nome e della parola che lo pronuncia. Alla fine ogni viaggiatore finisce per somigliare alla sua casa, al luogo dove ha abitato, dove ha vissuto, sognato, patito, scopato. Ogni volto ha un qualcosa di quella casa , di quelle mura, di quella città con tutti i suoi apparati, viscere, elucubrazioni, discorsi disarmonie e armonie. In quel treno ogni vissuto andava al suo posto disegnando traiettorie inconsuete nei volti che egli vedeva per la prima volta. Ognuno di loro gli ricordava qualche altro volto, qualche altra espressione in un andirivieni di immagini della memoria. Così quell’angusto spazio di un vagone di seconda classe delle ferrovie diventava un cosmo dove forze sottili si sfidavano o si contrapponevano. Era un crepuscolo grigio quando il treno lo portò ad una stazione di media importanza. Pensò per un attimo che quella potesse essere la sua città. C’era un’atmosfera di pioggia in quel luogo; è soprattutto in città dove la tempesta è temibile, che il cielo mostra il suo volto con maggiore chiarezza possibile. Cercò di alzarsi da quel sedile ma una donna piuttosto ingombrante lo sopraffò. Gli chiese di aiutarlo a sistemare le valigie così Bruno perse del tempo e il treno ripartì, ma in cuore suo si disse che forse quella non era la meta cui era destinato. Per fortuna quella donna non si sedette accanto a lui, l’aveva scampata bella. A Bruno non piacevano le donne grasse poi quella era anche piuttosto invadente. Non fece in tempo a rimuginare fra sé e sé dello scampato pericolo e che poteva considerarsi fortunato, quando un viaggiatore che non aveva visto arrivare gli chiese con una cortesia fuori dal comune per quel luogo: “Posso sedermi? Non vorrei disturbala ma la mia prenotazione è proprio vicino al finestrino davanti al suo posto”. Bruno fu colto alla sprovvista e anche se deluso rispose con altrettanto gentilezza: “prego si immagini, lei è molto gentile”. L’altro sistemò i propri bagagli, una valigia di media grandezza e uno zaino che infilò fra le gambe. Era un uomo adulto, si poteva immaginare che avesse non meno di sessanta anni. La sua fronte era alta e liscia, i capelli lunghi e brizzolati allungavano e snellivano la sua testa tanto da farla apparire quella di un corvo in volo. Il naso grande giganteggiava sulle sue labbra sottili e grevi, il viso rotondo con una barba volutamente incolta, gli occhi come delle fessure che incidevano quel volto erano verdi. Portava degli occhiali rotondi, con una montatura marrone. L’incarnato pallido tradiva la stanchezza e notti insonni. Vestiva in maniera semplice ma con un tocco di eleganza. Era difficile risalire alla sua attività, ma certo si poteva intuire non fosse un uomo comune appartenente a quella schiera di viaggiatori che salgono in treno con la valigia e con la convinzione di essere un qualcosa, un incarico, un politico, un ufficiale, un impiegato, un bancario, un manager, un militare, un professore. No quel signore sembrava non avesse niente che lo rendeva simile a qualcun altro, che lo assimilava a una qualche professione, a un padre, a un fratello, a un figlio. Bruno si trovò in imbarazzo davanti a quegli occhi austeri, inespressivi eppure profondi. Dopo essersi sistemato al suo posto a sedere quel signore appoggiò sul piccolo ripiano davanti a lui un libro, un paio di occhiali, un catalogo e un blocco notes. Prima di mettersi a leggere gettò a Bruno uno sguardo rapido e subito, non sappiamo se per cortesia o forse per attaccare discorso gli chiese: “mi scusi se ho disturbato la sua quiete, dov’è diretto ?” Bruno ebbe la sensazione che quel tipo non avesse alcuna identità che fosse decisamente trasparente. Forse non era lì per caso, doveva esserci un motivo di quella presenza così insolita. Quel signore non somigliava a nessun altro nel treno, sembrava fosse piombato da un luogo estraneo, da un’altra terra, un altro pianeta. E poi perché avrebbe dovuto dire dove andava, non lo sapeva neanche lui. Ma per una sorta di gentilezza e secondo il motto, per la verità poco seguito, che a una persona gentile si risponde con altrettanta gentilezza rispose: “ancora non so”. L’altro che sembrò non dare molto peso a quella risposta piuttosto fuori dal comune, sembrò immergersi nel suo libro che sfogliò con avidità. Il viaggiatore s’infilò un altro paio di occhiali che dovevano essere di lettura su quelli per la miopia con la montatura marrone che già portava e s’immerse nella lettura. Leggeva con avidità senza preoccuparsi di chi gli stava attorno. Qualche volta si fermava, come per prendere respiro, beveva qualche sorso di acqua minerale dalla bottiglia che aveva sistemato nell’apposito sostegno davanti a lui e ricominciava a leggere. Bruno si concentrò anche lui su quel libro che il suo vicino dirimpettaio stava leggendo. Cercò di carpirne il titolo. L’edizione doveva essere Einaudi ma non riusciva a leggere né il titolo del libro, né l’autore. Perciò in una delle pause che intercorrevano tra la lettura del libro e la sosta del viaggiatore per portarsi la bottiglia dell’acqua sulle labbra gli chiese: “Mi scusi , non vorrei essere inopportuno ma che cosa sta leggendo?”. Bruno si fermò lì. Voleva chiedere qualcos’altro ma pensò che avrebbe potuto infastidire e attese la risposta. Il viaggiatore poggiò il libro sulle sue gambe fece un lungo respiro, si levò gli occhiali di lettura e alzò gli occhi nel vuoto come se dovesse giungergli dall’alto la risposta. “Si tratta de l’Uomo senza qualità di Robert Musil”, fece una pausa poi continuò “Lo avevo già letto da giovane, ma non ne avevo compreso la natura segreta, la sua struttura letteraria, ora che lo sto rileggendo mi appare nella sua nitidezza, nel suo fulgore.” Bruno si ricordò di quel libro. Lo aveva letto anche lui da giovane anche se non ricordava più niente della trama e dei personaggi. Sapeva che era un libro importante che tracciava un confine, una specie di demarcazione nel clima della Vienna dell’inizio del novecento fra tradizione e modernità. Si limitò a dire rilanciando con un’altra domanda: “E’ vero, un grande libro. Lei si occupa di letteratura?” Lui sembrò ancora guardare in alto e gli rispose quasi ispirato. “Sono solo un semplice lettore. Questo è ancora un libro attuale. Ulrich non solo è il tipico personaggio del primo novecento, della decadenza e della fine dell’impero austro ungarico, ma è il rappresentante tipico di quella borghesia che sarà poi destinata alla morte. Tutta la vicenda ha qualcosa d’inquietante, di anticipante ancora adesso. E’ come assistere alla propria rovina, alla fine di un altro impero, il nostro, quello sopravvissuto alla seconda guerra mondiale e all’avvento dell’uomo tecnologico. E’ l’annuncio di una catastrofe che si rivela in modo letterario. Qui la letteratura è non solo anticipante rispetto al reale, ma è lingua che rinnova, scoperta dell’indefinito esserci, determinazione dell’inderminato.” Il viaggiatore sostò per un attimo sulle parole. Un silenzio attraversava quello spazio dove quei due insoliti personaggi si trovavano. Il vociare intorno degli altri viaggiatori scandito dai suoni dei cellulari e dalle inutili conversazioni sembrava sospeso. “La vera letteratura è sempre fuori dall’ordinario, è sempre una sospensione, una freccia lanciata nell’indefinito scorrere del tempo”. Continuò. A Bruno gli sembrò retorico parlare in quel modo. In fondo si trattava di un semplice romanzo. Vide che il viaggiatore portava con sé un catalogo che ogni tanto sfogliava soffermandosi su qualche immagine. Erano riproduzioni di quadri. Il catalogo portava sulla copertina il nome dell’autore che Bruno non riusciva a leggere bene e a bella vista la casa editrice: Prearo editore. Bruno conosceva quell’editore e sapeva che pubblicava solo libri di arte contemporanea raffinati ed eleganti, perciò non dubitò un istante e per saperne di più gli chiese: “Mi scusi se sono ancora inopportuno lei è un pittore?” Lui rispose in maniera quasi enigmatica senza dire né si né no: “Preferirei di no. Il mondo dell’arte è un mondo angusto e spettrale mentre l’opera d’arte è il congegno dello spirito che nella contraddizione dell’esserci trova in questa aporia irrisolvibile tra empiria e trascendenza, il proprio senso, non c’è altro da dire sull’arte”. Il treno intanto aveva attraversato altre due stazioni. Le persone entravano e uscivano da quel vagone accompagnate dal rumore delle valigie, di zaini super ingombranti, borse. Bruno rimase immobile , sembrava sconvolto da quella non risposta, da quella strano enigma che sembrava un brano recitato da Carmelo Bene. Si convinse che quel signore doveva essere proprio un pittore: quelle risposte non nascono casualmente in una conversazione fra viaggiatori di un treno. Intanto la speaker del treno annunciò: diamo il benvenuto ai clienti e avvisiamo che il vagone ristorante rimane aperto fino alle 16,30. Il viaggiatore sembrò preoccuparsi di questo annuncio. Sembrava irritato e sbottò: “perché chiamarci clienti ? Io non sono un cliente sono una persona, un signore, semmai un viaggiatore. Abbiamo perso l’essenza della vita. Ormai ci siamo abituati ad essere dei clienti che bisogna sedurre a cui bisogna offrire, vendere qualcosa.” Ci fu ancora un breve intervallo di silenzio fra i due, rotto dal rumore sordo di un altro treno Freccia rossa che procedeva all’incontrario. Bruno replicò: “sono d’accordo con lei. Oramai si è clienti nostro malgrado, nessuno se ne preoccupa più”. Il viaggiatore sembrò interessarsi al suo vicino dirimpettaio più di quanto dovesse. Lo guardò questa volta diritto negli occhi e in maniera diretta gli chiese “ ma lei oltre a viaggiare senza sostare da nessuna parte e senza avere una meta precisa di che cosa si occupa ?” Bruno Scozzafava rimase sorpreso da quella domanda. Aveva già in mente di scendere alla prossima fermata ma quel tipo gli complicava le cose. Lo aveva quasi convinto che c’era una specie di natura del tempo cronologico che non poteva evitare. Gli parve di essere dentro un involucro. Quello scompartimento non era più un vagone di un treno ma una macchina del tempo che lo trasportava da un luogo all’altro, da una fuga all’altra. Bruno strabuzzò gli occhi e rispose. "Ho lasciato la mia casa nella città in cui abitavo. Ho imballato tutte le mie cose, mobili, libri, quadri e ora sono alla ricerca di un paese dove poter abitare anche se per qualche anno. Devo sistemare il mio passato, le parole, gli arredi della mia mente.” Il viaggiatore gli rispose con una leggera vena di ironia: “si vede che non ha le idee molto chiare”. Bruno rimase un po’ turbato da quell’affermazione, gli sembrò inopportuna ma lui proseguì: “questo treno non viaggia all’infinito ma ha una destinazione, una fine , una città dove termina la propria corsa. Tutte le cose del mondo vanno in questo modo, c’è sempre una direzione, un senso anche se vorremmo farne a meno. E’ inevitabile”. A questo punto, con uno sforzo quasi sovrumano Bruno tentò di replicare, ricordandosi che sull’argomento aveva letto abbastanza: “non so, credo di poter affermare che è proprio rispetto a quel sistema fisico a cui apparteniamo e per il modo con cui interagiamo con il resto del mondo siamo in prima istanza memoria e anticipazione. E’ il tempo che ci apre il nostro parziale accesso al mondo. Molte volte ci confondiamo con il tempo cosmico per brevi momenti della nostra vita ma è solo un’illusione. Il tempo, dunque, è una forma che la nostra mente crea qui ad ogni istante per stare nel mondo. E’ la sorgente della nostra identità, spostarsi da un luogo all’altro senza una meta né una dimora forse è un modo per comprenderlo questo tempo che non ha tempo”. Il viaggiatore a quel punto aveva abbandonato la propria lettura lasciando il libro di Musil sulle proprie ginocchia “mi scusi lei è buddista ?” gli chiese. Bruno Scozzafava avrebbe voluto rispondere, ma come si fa a parlare di ciò che è fluttuante, di ciò che non appartiene al mondo e che appare solo come una labile ipotesi trascendente? Il treno rallentò la sua corsa. Stava per arrivare a un’altra fermata. Bruno Scozzafava con uno scatto improvviso afferrò la sua borsa, prese la sua valigia e replicando al viaggiatore, con una voce appena udibile disse: “è arrivato il tempo di scendere” e si precipitò all’uscita del treno. Immagine: Claude Lorrain The Embarkation of the Queen of Sheba 1646

Friday, August 21, 2020

Niente è cambiato

Sembrava che il Covid-19 avesse potuto portare a un cambiamento di abitudini, a un mutamento virtuoso dei nostri stili di vita, invece purtroppo dobbiamo costatare che niente di tutto ciò è accaduto, niente ha modificato alcunché nel nostro spirito e nei nostri comportamenti. Ancora adesso che l’onda pandemica non si è esaurita del tutto, l’essere umano non ha modificato le proprie abitudini. Continua a divertirsi, consumare, sporcare il pianeta infischiandosi dei cambiamenti climatici e degli altri. E’ triste doverlo ammettere ma proprio in questi giorni ferragostani si è scatenata soprattutto da parte dei giovani un’irresistibile pandemia di divertimento, di assalto alle spiagge, di turismo insensato. La nostra unica preoccupazione sembra essere stata quella di sostenere il turismo di massa, di inebriare le persone con false promesse, di sostenere l’economia, di non chiudere le discoteche, godere ed essere colmi di felicità, anche se quest’ultima, molte volte è a danno degli altri. La nostra società è fondata sul divertimento, le distrazioni, lo svago, la dimenticanza, il consumo, l’impero mediatico, altro che responsabilità cui molti si richiamano. Come non pensare che tutto ciò sembra avere a che fare con una nuova dittatura costruita sul consenso di massa, sull’appiattimento del linguaggio, sui social network, sulla menzogna, sull’immagine, sulla persuasione, come afferma Michel Onfray nel suo ultimo saggio dal titolo Teoria della dittatura. La sua analisi prende a modello quel socialismo che Orwell aveva messo alla gogna con il suo libro La fattoria degli animali. Ora per Onfray questa analisi sembra prendere di mira l’Europa di Maastricht anch’essa colpevole di una visione distorta della realtà che nel nome della giustizia sociale favorisce la produzione aziendale, la disuguaglianza e l’impero dell’alta finanza. Avrei molte cose da obbiettare su questa tesi ma preferisco mantenermi su una dimensione meno revisionista e retorica e più critica. La tesi di partenza di Onfray è molto generalista. Nel criticare il sistema stalinista dell’Unione sovietica Onfray afferma che la dittatura nazifascista è analoga a quella stalinista, sostenendo in sostanza che i campi di sterminio, la Shoah e i gulag sono la medesima cosa; sono tutte alimentate da dittature feroci e da regimi totalitari. In sostanza il suo ragionamento è che nei campi di sterminio si deportavano gli ebrei, gli zingari e gli oppositori politici così come nei Gulag venivano deportati i nobili, gli aristocratici, i dissidenti e dunque non esistono differenze. No, non è la stessa cosa, la logica di sterminio scientifico, sistematico di tutti gli ebrei non è paragonabile, neppure lontanamente, a quella dei Gulag che in qualche modo, anche se in maniera criticabile ed eccessiva, rimaneva in una logica di regime politico, di lotta violenta e totalitaria. Il revisionismo storico ha le gambe corte se non si guardano realmente i fatti, i contesti, le fonti, i documenti, le testimonianze. Bisogna imparare a distinguere, anche se questo costa fatica. L’Europa nata da Maastricht non è per nulla identificabile con le dittature cui abbiamo assistito nel Novecento, né porsi come riferimento per una teoria della dittatura dell’oggi, anche se ciò che lega i paesi europei è solo la questione economica e produttiva. Mi sembra che l’Europa stia facendo dei passi avanti in una dimensione di solidarietà, di lotta alla povertà, di salvaguardia del clima e riconversione economica in senso ecologico, anche se ciò non basta. Tuttavia ci sono aspetti della teoria della dittatura che Onfray analizza nel suo libro degni di nota, per comprendere meglio ciò che sta accadendo nel nostro mondo, senza che nessuno se ne renda conto. Tanto per citarne alcune di queste questioni, faccio riferimento soprattutto all’impoverimento della lingua, la distruzione del lessico, l’eliminazione dei classici, l’abolizione della verità, la strumentalizzazione della stampa, la diffusione di notizie false, la cancellazione del passato, la negazione della natura, l’industrializzazione della letteratura e dell’arte, il divertimento come liberazione da ogni vincolo, la propagazione dell’odio. Questi sono alcuni di quegli aspetti che ci fanno pensare a una dimensione di emergenza per il pensiero. Per tornare alle dimensioni pandemiche che vengono dall’esterno, dalla peste di antica memoria a quella di oggi, si è indotti a credere che le questioni che abbiamo sollevato fin qui non c’entrino niente né con le vecchie pandemie né con il Covid. Quella che stiamo vivendo ora, prima o poi passerà e di nuovo tutto tornerà come prima. Non è così
. La pandemia si propaga con il contagio. Il contatto non è più fisico ma invisibile con ciò che è inafferrabile e che colpisce tutta la comunità. Sergio Givone nel suo ultimo saggio dal titolo: Metafisica della peste scrive che fa parte del nostro destino, quello di essere uomini mortali esposti a ciò che non possiamo né controllare né prevedere. Le pandemie accompagnano le nostre esistenze non solo come realtà che ci infettano portandoci alla morte, ma anche come una colpa che si estende su tutta la vicenda umana fino a infettare il web e toccare così da vicino le nostre esistenze diventando metafora delle paure contemporanee (emergenza, malattia, inquietudine). Al di là dei dati pandemici ciò con cui abbiamo a che fare è qualcosa cui non possiamo sottrarci e che è anche il privarsi di qualche libertà e che chiama alla responsabilità nei nostri comportamenti e nei nostri gesti quotidiani. Ognuno di noi oltre a contagiarsi può divenire un potenziale contagiante. Ciò non può essere eluso con il ritornello tanto prima o poi arriverà un rimedio, poiché le questioni che abbiamo sollevato rimangono, né si risolvono con un nuovo vaccino. Forse una nuova pandemia scoppierà ancora e forse non sarà più possibile, recriminare, o tornare indietro. Gli effetti poi dei cambiamenti climatici sono evidenti a tutti e ormai il processo è irreversibile e impone scelte non solo in campo energetico ma anche nei nostri modi di produrre e creare lavoro. Come abbiamo già scritto nel libro dal titolo Ai bordi dell’arte, pubblicato di recente da ZONE ma anche molto prima del Covid con Inquietudini, denaro , politica e arte, pubblicato da Lanfranchi editore, occorre cambiare il nostro modo di pensare. Bisogna che la responsabilità sia etica e autentica, nel linguaggio che parliamo e nei nostri gesti quotidiani, bisogna rinunciare all’odio, sviluppare argomenti, uno spirito critico, una virtù del commento e non dell’esagerazione, un’etica dell’estetica, interrogarsi sul senso della nostra esistenza e dello stare al mondo, insomma imparare a essere discreti, virtuosi e solidali. Ce la faremo ?