Sunday, November 15, 2020

Le cifre della pandemia sembrano aumentare. Sono tanti i contagi e il numero dei morti è sempre più preoccupante. Orami sono diversi mesi che camminiamo, incontriamo gli altri con la mascherina. Ci aggiriamo a distanza dalle persone sempre più sospettosi e incerti. Il Covid 19 viaggia a ritmi inaspettati e folli, i media hanno peggiorato la situazione incrementando la paura. Un’ondata di terrore sembra prevalere su tutto anche sullo sguardo. Il nostro volto è parzialmente coperto, si mostrano solo gli occhi. Gli esseri umani hanno avuto in dote gli occhi con cui guardiamo il mondo, lo osserviamo, lo valutiamo, e guardiamo anche gli altri. Ora sono loro a prevalere sul resto del viso Gli antichi dicevano che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Questa pandemia ha perfino impedito agli esseri umani di guardarsi. Se c’è qualcosa che è rimasto, nel momento in cui non possiamo avvicinarci ai corpi, stringerci in un abbraccio è la bellezza dello sguardo, la sua inafferrabilità ma al contempo la sua profondità. Avremmo modo di guardarci, almeno in questo terribile momento, di dirci ancora qualcosa con i nostri occhi che sono, non solo l’espressione di un volto, ma la stessa parola umana. Eppure anche lo sguardo sembra sottrarsi. Nessuno si rivolge all’altro con lo sguardo, parla con gli occhi, esprime solidarietà, piacere, dispiacere, curiosità.
In questi giorni ho provato a incrociare lo sguardo delle donne che incontro durante le mie passeggiate, al supermercato, o in libreria. Nella mia vita orami quasi monastica, vivo in solitudine, circondato dai miei libri, così mi rilassa molto osservarle cercare di capire quali sono i loro interessi, le loro emozioni. Guardo non più i loro corpi, come sono fatte, le loro gambe,, i fianchi, i seni, le fattezze del viso, ma i loro occhi. Da qui cerco di capire tutto il resto. Ma rimango sempre deluso. Esse sfuggono allo sguardo, ne hanno paura. Immergersi nello sguardo di una donna è come risalire al suo fondo, è come svelare un mondo, cercare il senso dell’essere, quella verità che sempre si sottrae. Come farglielo capire? D’altronde lo stesso si può dire per gli uomini.
La bellezza è interiore e lo sguardo la svela e al contempo la nega. Nello sguardo e negli occhi di una donna s’intravede il nichilismo occidentale, il terrore di un vero incontro, la paura abissale di avere a che fare con l’essere, con la sua verità, con gli enti che sono la sua apparente manifestazione e con le cose del mondo che abitiamo. Nell’estrema povertà della nostra epoca dove gli enti precedono e l’essere si trattiene nella su assenza si rivela un nuovo inizio che lo sguardo può annunciare. Forse l’inizio dell’essere che si apre. M non lo sappiamo, chiusi nei nostri corpi, continuiamo a non guardare, a non incrociare veramente lo sguardo dell’altro.
C’è una fenomenologia dello sguardo che porta a differenze di modi di guardare, a differenze sottili ma potenti. C’è lo sguardo sorridente, aperto e ironico, lo sguardo seducente dove ogni movimento delle palpebre mima l’amore, c’è quello tenebroso, quello vuoto, quello virtuoso, quello interiore, e ancora di più quello perso che va al di la della persona che si guarda; c’è lo sguardo che vibra, pronuncia, palpa e c’è quello che vuole ignorare, che non sa di poter guardare, che non sa fermarsi sulle cose. In tutti questi modi e altri ce ne sarebbero, tanti quanti sono i nostri sentimenti, sono gli occhi a dominare la scena a infondere di vita il corpo, così come fa la nostra bocca con il respiro.
Anche nel sesso è così. Ci facciamo trasportare dalla bellezza del corpo, dalle forme del nostro partner, ma anche mentre facciamo l’amore, evitiamo di guardare i suoi occhi. L’amplesso diventa una gioia del corpo, dove paradossalmente sono gli occhi a essere esclusi, guardiamo e amiamo quel corpo ma non la porta che ci conduce all’antico tremore, all’anima dell’amata o dell’amato. Sarebbe infinitamente bello, istruttivo, essenziale fare l’amore solo guardandosi negli occhi e godere con gli occhi. Eppure questa specie di possibilità che la pandemia sembra offrire, pur nella sua sconvolgente terribilità, ci sfugge.
Potremmo superare le barriere del corpo, dell’età, delle convenzioni sociali e dei pregiudizi guardandoci negli occhi, ma non lo facciamo. Non guardiamo gli occhi di chi ci sta di fronte, come se avessimo paura, come se dovessimo mentire perfino a noi stessi prima che nasconderci all’altro. Arretriamo, siamo timorosi e questo si può capire, ma non lasciamo alcuna possibilità di svelare quell’essenza che noi stessi siamo, di aprire la soglia dell’essere, di aprirci a un rapporto.
Gli occhi di una donna in questa nascondimento del volto a cui la mascherina ci obbliga potrebbero essere l’apertura all’amore, alla donazione, alla vera bellezza, ma anche al desiderio di incontrare l’altro in quella dimensione dell’eternità che sembra sfuggirci sempre di più, anche ora che non possiamo toccare, possedere, accarezzare quel volto, quel corpo. Invece guardiamo davanti a noi come si fa con uno schermo televisivo. Oppure, ancora peggio, osserviamo con gli occhi quasi assenti ma sedotti dalla luce di quel piccolo arnese tecnologico il piccolo schermo del nostro cellulare cercando quella bellezza che certo non può trovarsi lì. Non guardiamo e comunichiamo davvero ma siamo solo rimandati a noi stessi.
Guardiamo l’oscenità delle immagini belle, colorate ricche di trucchi, i riti di una seduzione irreggimentata che non sa proporre cultura e vera bellezza. Quel che continuiamo a ignorare è che non sappiamo che cosa sia uno sguardo o forse non sappiamo più guardare. E’ una condizione infelice, ma se ne può uscire con gli occhi dell’arte, basta volerlo. C’è lo sguardo interrogante del corpo dell’arte che ci guarda, e che noi non riusciamo a incrociare, a guardare, neppure a sfiorare con gli occhi e leggere le sue pagine, quelle del tempo che scorre.
Forse c’è ancora una qualche possibilità. Uno dei frammenti di Eraclito a proposito del tempo suona così: Non si può discendere due volte nel medesimo fiume non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va.
Immagini: 1 - Lo sguardo di Francesco Correggia 2 - Antonello da Messina, l’annunciata di Palermo, 1475 3 - Gustave Coubet, uomo disperato, 1845 4 - Shaun Downey, lo sguardo fuori dalla finestra 2016 5 - Malcolm T. Liepke, the kiss, 2017 6 - Giuseppe Penone, rovesciare I propri occhi, 1970 7 - Lo sguardo di Jenny Holzer 8 - John Curry, The penitent, 1998 9 – Lo sguardo della Fornarina di Raffello, 1520 ca. 10 - Lo sguardo di Hegel 11 - Lo sguardo di Francesco a 16 anni

Saturday, November 7, 2020

Ritornano i provvedimenti per il Covid 19 che abbiamo già vissuto a Marzo anche se questa volta sembrano parziali e diversificati da Regione a Regione. Il nuovo DCPM prevede la chiusura delle attività commerciali, ristoranti, palestre, scuole, Musei e mostre, blocco del traffico e della circolazione dopo le 22. C’è incertezza. Sembra prevalere lo scoramento e anche in alcuni casi la sfiducia sui provvedimenti adottati. E’ difficile saper rinunciare a quello che fino a qualche mese fa veniva considerato un bene prezioso, la libertà personale, potersi spostare senza confini, celebrare i riti del consumismo. Non riusciamo a comprendere che ora si tratta di cambiare modelli di vita, oltre a quelli della produzione e dei consumi.
La pandemia si intreccia con l’emergenza climatica, con il ritorno del terrorismo islamico, la povertà e l’immigrazione. Le disparità generazionali sembrano aumentate mentre l’ottusità spettacolare, pubblicitaria delle reti televisive non fa altro che rimanere identica a se stessa. Si chiudono di nuovo i Musei, le gallerie e la cultura, ancora una volta, diventa una parola vuota a cui tutti sembrano richiamarsi a gran voce e che invece è trascinata nel vortice del consenso, del clamore, della distruzione delle conoscenze, di una comunicazione mercificata e livellata.
Com’è potuto accadere tutto ciò? Sembra che solo un vaccino ci possa salvare. Ma anche qui i ritardi sono molti e poi ciò non ci salverà dalle prossime ondate di virus a cui questo pianeta è destinato se non cambiamo le nostre abitudini, i modelli mentali e comportamentali, il sistema dei valori e la stessa idea di bellezza a cui in questo paese spesso ci si richiama.
Prendersi cura del pianeta vuol dire prendersi cura di sé, del proprio esserci nel mondo. L’esserci non è semplicemente essere in presenza e non è che l’uomo sia, e oltre a ciò abbia un rapporto col mondo occasionale e arbitrario. All’esserci come scrive Heidegger in Essere e Tempo appartiene in linea essenziale l’essere-nel-mondo, il suo modo di essere in rapporto al mondo è essenzialmente prendersi cura. Cura di che cosa? Senza qui addentrarci nell’analitica esistenziale heideggeriana, vogliamo solo dire che aver cura di sé vuol dire avere cura del mondo e dell’autenticità dell’essere; è assunzione di una relazione con il pianeta che abitiamo, con questo orizzonte di relazioni che implica una metodica, un esercizio delle virtù che sappia indicare un nuovo inizio, una corrispondenza tra virtù e valori, anima e mondo, una specie di teodicea dei valori fondamentali.
Ora è anche vero che il mondo, questo in-essere nel mondo sembra sia sparito, ovvero non c’è più un mondo, ma è anche vero che occorre una svolta del pensiero, un inizio che sappia sostituire alla parola mondo la parola pianeta. Se l’essere non ha più il mondo come orizzonte, esso è ora diventato un concetto che ci riguarda ancora più da vicino e che ha a che fare con l’abitabilità del pianeta, il suo equilibrio, la sua stessa sopravvivenza, la sostenibilità. il che deve avere la priorità sugli enti e su tutte le cose. Se dobbiamo ricostruire una gerarchia dei valori dobbiamo proprio partire da questo nuovo inizio: la cura del sé e del pianeta da cui si generano gli altri valori. L’intreccio fra esistenza e valori, sviluppo sostenibile e sistemi naturali non è solo costituito dalla tradizione, da un’antropologia o da una biologia ma da un’ontologia dell’essere, una coscienza della vita e del sistema terra, dalla stessa possibilità di una relazione.
La mancanza di mondo non è solo la sua sparizione ma è anche ciò che non ci rende consapevoli del rapporto esemplare dell’anima con il mondo, che non ci fa abitare questo pianeta, di vivere in esso e con esso in maniera rispettosa e responsabile. Noi non abbiamo il pianeta con noi e in noi, ma lo abbiamo messo a disposizione della tecnica. Non siamo nel mondo, così come avrebbe detto Heidegger, non ne abbiamo un’esperienza esistenziale ma siamo nell’epoca dell’immagine del mondo, in un immagine tecnica del mondo. Siamo cioè sotto il dominio della tecnica e al contempo viviamo nell’epoca della visione tecnica del mondo in immagine. Anche la bellezza è sottoposta al dominio della tecnica. Essa è sempre più sottoposta alle tecniche di elaborazione dell’immagine, non ha più carne, sostanza ma solo pixel. Apparentemente tutto ciò non ha niente a che vedere con la pandemia e tutto il resto. Invece no, vi ha a che fare. Vediamo come.
L’aver cura del pianeta significa avere cura del sé che, in primis, significa aver cura della propria coscienza, della nostra anima, del sistema terra. Cambiare vuol dire saper riconoscere la vera bellezza che è esercizio delle virtù, è interiorità, è distinzione del bene dal male. Riconoscere non è poi conoscere ex novo ma ri-guardare la storia, trarne un insegnamento. Quel che abbiamo perso è l’anima del mondo che è la nostra di anima. L’espansione tecnologica invece ha invaso tutta la natura riducendo le zone di confine, gli spazi, gli equilibri, i boschi, l’aria che respiriamo, lo stesso confine fra uomo e animale. Quando i sistemi produttivi sono in rotta di collisione con la natura dobbiamo ritrovare una dignità umana, una nuova rotta del pensiero, non andare oltre i confini ambientali, vuol dire che abbiamo superato quei limiti e li abbiamo sconvolti.
Il Covid 19 non è solo un Virus da sconfiggere ma è l’esempio di ciò che accade quando l’uomo è esposto al disastro ambientale che lui stesso ha alimentato, ad un’economia selvaggia e globale che non sa distinguere se non in nome del denaro. Dovremmo ripartire dall’esserci ma soprattutto dalla nostra coscienza individuale e relazionale, Essere nella relazione non vuol dire conquistare sempre più nuovi spazi, acquistare beni che non servono a niente, non vuol dire che l’uomo deve avere il suo mondo-ambiente quando questo avere è indeterminato. L’avere è sempre fondato nella costituzione essenziale dell’in-essere. In-essere è anche sapere ascoltare ciò che ci fa di nuovo essere nel mondo, prendersi cura dell’essere. Dal pianeta al mondo e viceversa. Non da un vivente all’altro ma da una distinzione all’altra, da un ambiente all’altro in uno sviluppo sostenibile, integrato co i sistemi naturali.
Quando questo equilibrio fra un luogo e l’altro, fra natura e cultura, scienza della vita e la terra viene meno, allora la natura apre i suoi nidi nascosti e invisibili di virus letali. Il prendersi cura non è solo cura dell’ambiente, dei luoghi che abitiamo bensì anche quella rispetto all’immagine che ne abbiamo, della cultura visiva ed estetica. La bellezza non può essere solo immagine tecnica del consumo e dello sperpero che dilagano nei canali pubblicitari, nell’uso dei social, ma spirito, virtù che abita il mondo e l’arte, in questo senso, è apertura di un nuovo inizio dell’esserci. Significa saper vivere nel senso di un’umanità non corrotta i cui equilibri con i sistemi naturali sono la vera sfida. Se lo dimentichiamo vuol dire che da questa pandemia non abbiamo appreso niente se non il reiterare gli stessi slogan di prima.
Occorre, dunque, rivedere anche il modo con cui intendiamo la cultura e la bellezza, il sistema dei valori,. Se c’è qualcosa che questa pandemia ci lascia e su cui val la pena riflettere è la domanda fondamentale su quali valori possa oggi costituirsi una nuova dignità umana e se oggi sia possibile impegnarsi e costruire il futuro. O forse sarebbe meglio domandarsi se i valori, così come li abbiamo ereditati dalla cultura occidentale, esistano ancora o se debbano esistere.
Immagini: 1- Francesco Correggia 2 - Claude Ratault, 505 lettre au docteur barnes , 2010 3 - Pierre Buraglio, Rue Primo Levi, 2019 4 - Hossein Golba, senza titolo, collezione Camusac, Cassino, 2002 5 – Noel Dolla, senza titolo, 1998 6 - Sarah Stolfa, The regular david scott smith, 2018 7 - Marc Devade, Nel mezzo, 1979 8 - Daniel Dezeuze, Vanités, wood, 2013 9 - Barnett Newman, Guggenheim Museum, 1966 10 - Sol LeWitt, Cubo, collezione Camusac, Cassino, 1994 11 - Francesco Correggia, emergenza Covid 19, 2020