Pensieri dalla quarantena
l’opera e l’inoperosità
Abbiamo sempre pensato che la
realizzazione dell’opera fosse la finalità dell’artista, ma anche quella del
poeta, dello scrittore e in generale quella che corrisponde all’attività
dell’essere umano. Secondo questa traccia,
l’opera d’arte sarebbe un fare libero da ogni applicazione, da ogni fine
utilitario che però persegue uno scopo, il
suo stesso manifestarsi. L’opera in
questo senso sarebbe un’attività creatrice del pensiero, un fare, un produrre che
è del tutto opposto a ciò che intendiamo
con la parola “produzione”.
L’operare dell’artista è un portare
a compimento lo stesso suo progetto il quale è qualcosa che non può essere
realizzato e compiuto del tutto, poiché contiene in sé una serie infinita di
possibilità. Esso è intessuto di vissuto, di una materia incandescente,
irriducibile che non può essere resa visibile o per lo meno percepita
nell’immediato. Ciò che lega l’opera al vissuto dell’artista è fatto di carne.
Carne del sensibile che attraversa i corpi e si oggettivizza in ciò che noi
chiamiamo opera. Essa sarebbe mediatrice di un’opposizione tra vita qui, nel
mondo, sua esposizione e l’impossibilità di rappresentare l’infinito se non a
costo di continui naufragi, continui ripensamenti e rifacimenti. E’ proprio
così che l’opera raggiunge una sua cifra stilistica, una sua qualità
irripetibile.
Heidegger piuttosto che
riferirsi all’opera in quanto tale scrive di una messa in opera. Il mettere in
opera così presupporrebbe un processo, una dinamica che è cosa diversa dal
fare. In seguito chiarisce che il fare dell’arte non è un mero fare ma un fare
consapevole. L’arte per lui consisterebbe
nella messa in opera della verità. Essa certo
non è assoluta, ma possibilità,
scoprimento, ricerca. Qui dovremmo pensare non all’esperienza
dell’opera e del suo farsi ma al suo aspetto disvelante rispetto alla realtà
delle cose.
L’opera d’arte è il farsi avanti
della verità, la sua svelatezza che porta con sé la sua stessa velatezza. Le
cose che ci appaiono non sono semplici cose dinanzi a noi ma soglie verso ciò
che è e deve mostrarsi, porte attraverso cui si rivela l’ignoto. Con questa
parola non vogliamo dire che ogni cosa è velata da ciò che non conosciamo e che
a noi è ignota ma solo affermare che possano esistere diversi mondi, diversi
universi dissimili dal nostro, dai quali siamo separati da diaframmi, velature.
Nondimeno nel velamento non c’è solo nascondimento
ma sottrazione, ripiego. Si sottrae la natura che ama nascondersi come diceva
Eraclito e si sottrae anche la verità
che appunto non può essere detta e che non possiamo mai possedere del tutto. Così
il fare dell’arte viene tolto dalla sua componente materiale seppure la mantenga
su un altro livello e diventa un’azione, un atto disvelante.
Le cose ci sono, sono reali
tuttavia non riusciamo a vedere la loro essenza, non riusciamo a vederla poiché essa
soggiace all’esperienza dei sensi, alla loro inevitabile fallacia. Con
l’esperienza dovremmo accedere alla realtà, alla sua comprensione.
Tuttavia la differenza tra semplice
esperienza ed esperienza dell’arte è
fondamentale per comprendere la natura del mondo e la necessità della
sottrazione. Mentre, l’esperienza si fa,
si pratica, per fare arte occorre sapere il perché bisogna agire in un
certo modo piuttosto che in un altro. In questo atto si rivela il suo aspetto
poietico e lo stesso accedere alla verità che sempre si sottrae.
Non è comunque la produzione lo scopo del fare arte. Non è la
fattura dell’opera ma il suo sottrarsi all’immediatezza, il suo essere
conoscenza delle cose viste e di quelle non viste che, in un certo modo, restituiscono all’opera la più
propria qualità. L’artista rispetto a
chi meramente fa l’opera è colui che è in possesso di un sapere concettuale, perché per conoscere le cause di quel fare, rinuncia al suo poter fare. Egli così mette in opera un’azione che si compie e al
contempo ha anche la capacità di ritrarsi. Essa, pur essendo fatta di materia
non si mostra, ma si espone nel senso dell’esporsi del senso, restando in significati che si trasformano
all’infinito in cifre che sono un linguaggio della trascendenza.
Per Aristotele l’azione ha il proprio fine in
se stessa, ossia nel compimento dell’azione stessa, mentre la produzione ha il
suo fine fuori di sé, ossia nell’oggetto che essa produce. Produrre quadri o
quel che si chiamano opere, oltre a non essere la vera finalità dell’arte,
contraddice il suo stesso senso. L’aver prodotto un’opera non vuol dire averla portata
a compimento ma solo averla
inserita fra gli oggetti della realtà, ridurla in sostanza a merce nascondendone la
cifra, la ragione stessa del suo sorgere .
Né
tanto meno l’opera d’arte ha solo a che fare con la sua dimensione estetica,
con i sensi e il loro prolungamento. Ciò che la costituisce è il suo sottrarsi a
ogni criterio produttivo, alla sua mercificazione anche se ciò sarebbe il suo
inevitabile compimento, il suo esserci nel sistema. Il destino dell’opera è
proprio il contrario a cui sembra
aspirare. Il suo giungere a esserci nella dimensione
istituzionale; non è il fatto di raggiungere i vertici delle quotazioni di
mercato come se ciò fosse lo scopo, ma al contrario è il progetto di ricerca infinita che la
caratterizza ponendosi come aporia
e insieme sostanza del fare rispetto alla percezione della realtà.
E’ lo svolgersi della contraddizione
irrisolvibile fra un fare poietico, creativo, produttivo come
spinta all’autoaffermazione di sé e la sosta nell’inoperosità costituiva come
aspetto di quella trascendenza a cui
l’arte da sempre tende che apre a mondi, a trame di realtà. Ed è così che essa tende ad un nuovo universo di riconoscibilità, la rende testimonianza dell’umano procedere, il suo farsi e disfarsi all’infinto.
Perciò l’inoperosità è parte integrante dell’opera, è essa che predispone alla vista,
a un modo diverso di accedere alla visione e alla contemplazione di ciò che ci
riguarda da vicino. La natura dell’arte e la natura dell’essere coincidono, il loro
luogo sarebbe proprio un non aver luogo.
L’aver luogo dell’opera è il negarsi stesso
del luogo come spazio definito, spazio dell’identità e differenza. L’opera accade al confine del niente tra diaframmi di
universi sconosciuti, poiché è proprio
al margine di quel bilico che si possono
intravvedere quei mondi. E’ in questo margine
che stanno gli artisti, ai bordi del
sapere.
Non ai
bordi del saper fare ma ai bordi dell’essere, del non fare, di ciò
che li trascende tra operosità e inoperosità.
Si tratta di saperli contemplare quei mondi; è in questo senso che
l’opera si fa, crea spazio e ci dice qualcosa intorno a quel fare, mormora cioè
il suo provenire, la sua origine e il suo destino, il naufragio stesso
nell’urto con la verità.