Tuesday, April 28, 2020





Pensieri dalla quarantena
l’opera e l’inoperosità 

Abbiamo sempre pensato che la realizzazione dell’opera fosse la finalità dell’artista, ma anche quella del poeta, dello scrittore e in generale quella che corrisponde all’attività dell’essere umano.  Secondo questa traccia, l’opera d’arte sarebbe un fare libero da ogni applicazione, da ogni fine utilitario che  però persegue uno scopo, il suo stesso manifestarsi.  L’opera in questo senso sarebbe un’attività creatrice del pensiero, un fare, un produrre che  è del tutto opposto a ciò che intendiamo con la parola “produzione”.
L’operare dell’artista è un portare a compimento lo stesso suo progetto il quale è qualcosa che non può essere realizzato e compiuto del tutto, poiché contiene in sé una serie infinita di possibilità. Esso è intessuto di vissuto, di una materia incandescente, irriducibile che non può essere resa visibile o per lo meno percepita nell’immediato. Ciò che lega l’opera al vissuto dell’artista è fatto di carne. Carne del sensibile che attraversa i corpi e si oggettivizza in ciò che noi chiamiamo opera. Essa sarebbe mediatrice di un’opposizione tra vita qui, nel mondo, sua esposizione e l’impossibilità di rappresentare l’infinito se non a costo di continui naufragi, continui ripensamenti e rifacimenti. E’ proprio così che l’opera raggiunge una sua cifra stilistica, una sua qualità irripetibile.  
Heidegger piuttosto che riferirsi all’opera in quanto tale scrive di una messa in opera. Il mettere in opera così presupporrebbe un processo, una dinamica che è cosa diversa dal fare. In seguito chiarisce che il fare dell’arte non è un mero fare ma un fare consapevole.  L’arte per lui consisterebbe  nella messa in opera della verità. Essa certo non è assoluta,  ma possibilità, scoprimento, ricerca.   Qui dovremmo pensare non all’esperienza dell’opera e del suo farsi ma al suo aspetto disvelante rispetto alla realtà delle cose.

L’opera d’arte è il farsi avanti della verità, la sua svelatezza che porta con sé la sua stessa velatezza.   Le cose che ci appaiono non sono semplici cose dinanzi a noi ma soglie verso ciò che è e deve mostrarsi, porte attraverso cui si rivela l’ignoto. Con questa parola non vogliamo dire che ogni cosa è velata da ciò che non conosciamo e che a noi è ignota ma solo affermare che possano esistere diversi mondi, diversi universi dissimili dal nostro, dai quali siamo separati da diaframmi, velature.
 Nondimeno nel velamento non c’è solo nascondimento ma sottrazione, ripiego. Si sottrae la natura che ama nascondersi come diceva Eraclito e  si sottrae anche la verità che appunto non può essere detta e che non possiamo mai possedere del tutto. Così il fare dell’arte viene tolto dalla sua componente materiale seppure  la mantenga  su un altro livello  e diventa  un’azione, un atto  disvelante.
  
Le cose ci sono, sono reali tuttavia non riusciamo a vedere la loro essenza,  non riusciamo a vederla poiché  essa  soggiace all’esperienza dei sensi, alla loro inevitabile fallacia. Con l’esperienza dovremmo accedere alla realtà, alla sua comprensione. Tuttavia   la differenza tra semplice esperienza ed esperienza dell’arte  è fondamentale per comprendere la natura del mondo e la necessità della sottrazione.  Mentre, l’esperienza si fa, si pratica,  per  fare arte  occorre sapere il perché bisogna agire in un certo modo piuttosto che in un altro. In questo atto si rivela il suo aspetto poietico  e  lo stesso  accedere alla verità che sempre si sottrae. 

Non è comunque  la produzione lo scopo del fare arte. Non è la fattura dell’opera ma il suo sottrarsi all’immediatezza, il suo essere conoscenza delle cose viste e di quelle non viste  che,  in un certo modo, restituiscono all’opera la più propria  qualità. L’artista rispetto a chi meramente fa l’opera è colui che è  in possesso di un sapere concettuale,  perché per  conoscere  le cause di quel fare,  rinuncia al suo poter fare. Egli così  mette in opera un’azione che si compie e al contempo ha anche la capacità di ritrarsi. Essa, pur essendo fatta di materia non si mostra, ma si espone nel senso dell’esporsi del senso, restando  in significati che si trasformano all’infinito in cifre che sono un linguaggio della trascendenza.  

Per Aristotele l’azione ha il proprio fine in se stessa, ossia nel compimento dell’azione stessa, mentre la produzione ha il suo fine fuori di sé, ossia nell’oggetto che essa produce. Produrre quadri o quel che si chiamano opere, oltre a non essere la vera finalità dell’arte, contraddice il suo stesso senso. L’aver prodotto un’opera non vuol dire averla portata a compimento  ma solo averla inserita  fra gli oggetti  della realtà,  ridurla in sostanza a merce nascondendone la cifra, la ragione stessa del suo sorgere .
 Né tanto meno l’opera d’arte ha solo a che fare con la sua dimensione estetica, con i sensi e il loro prolungamento. Ciò che la costituisce è il suo sottrarsi a ogni criterio produttivo, alla sua mercificazione anche se ciò sarebbe il suo inevitabile compimento, il suo esserci nel sistema. Il destino dell’opera è proprio il contrario  a cui sembra aspirare.  Il  suo giungere a esserci nella dimensione istituzionale; non è il fatto di raggiungere i vertici delle quotazioni di mercato come se ciò  fosse lo  scopo, ma al contrario è il  progetto di ricerca infinita che la caratterizza  ponendosi  come aporia  e insieme sostanza del fare rispetto alla percezione della realtà. 

E’ lo svolgersi della contraddizione irrisolvibile fra un fare poietico, creativo, produttivo  come  spinta all’autoaffermazione di sé  e la sosta nell’inoperosità costituiva come aspetto di quella trascendenza  a cui l’arte da sempre tende che  apre a  mondi, a trame di realtà.  Ed è così  che essa tende ad  un nuovo universo di riconoscibilità,  la rende testimonianza dell’umano procedere,  il suo farsi e disfarsi all’infinto.

Perciò l’inoperosità è parte integrante  dell’opera, è essa che predispone alla vista, a un modo diverso di accedere alla visione e alla contemplazione di ciò che ci riguarda da vicino. La natura dell’arte e la natura dell’essere coincidono,   il loro luogo sarebbe proprio un non aver  luogo. 

L’aver luogo dell’opera è il negarsi stesso del luogo come spazio definito, spazio dell’identità e differenza. L’opera  accade al confine del niente tra diaframmi di universi sconosciuti,  poiché è proprio al margine di quel bilico  che si possono intravvedere quei mondi.  E’ in questo margine  che stanno gli artisti, ai bordi del sapere.

 Non ai bordi del saper fare ma ai bordi dell’essere, del non fare,   di ciò che li trascende tra operosità e inoperosità.  Si tratta di saperli contemplare quei mondi; è in questo senso che l’opera si fa, crea spazio e ci dice qualcosa intorno a quel fare, mormora cioè il suo provenire, la sua origine e il suo destino, il naufragio stesso nell’urto con la verità.


Thursday, April 16, 2020


                                  

Che cosa debbo fare ?


Siamo nella fase più acuta del Coronavirus. Ormai tutti ne conosciamo le conseguenze. Si pensa già su quella che viene chiamata la fase due dello sviluppo epidemiologico e dei provvedimenti presi per bloccarlo prima che si arrivi ad un vaccino che sviluppi gli anticorpi necessari. Orami dopo quasi un mese di sospensione di ogni cosa, di clausura in casa, di città deserte sembra che anche nella fase due le restrizioni   e le limitazioni proseguano forse fino a Giugno soprattutto per gli anziani, i quali sarebbero più esposti all’ondata mortale del Virus.  Non voglio qui entrare in merito ai provvedimenti presi da parte del Governo di concerto con la Protezione civile e con le autorità scientifiche ma solo rimarcare alcuni nodi problematici che tali provvedimenti hanno sollevato e alle reazioni che  i medesimi hanno provocato  da parte delle categorie civili, istituzionali di questo paese dalle imprese agli artigiani, dai commercianti ai singoli cittadini. 

                      

A tale proposito mi vengono in mente le tre domande essenziali  di  Kant   e cioè:  Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare ? Che cosa sperare ? Queste tre domande formulate nel contesto della metafisica trascendentale ora sembrano funzionare nel contesto drammatico della situazione attuale. Non perché esse ci riportano ad una dimensione metafisica del sapere ma proprio perché sono domande che, oltre a porre delle interrogazioni,  invitano tutti  a ragionare e a riflettere e non a cadere preda di  eccessi e delle consuete abitudini. A partire da queste premesse mi rivolgerò ad un Mondo che credo di conoscere e del quale io stesso faccio parte e cioè al Mondo dell’arte. E lo farò a partire dagli artisti stessi, dal modo con cui hanno reagito e operato in questa particolare contingenza. 




Quella del crollo di certezze ritenute  incontrovertibili ha evidenziato la fragilità con cui l’essere umano risponde alle dimensioni catastrofiche di situazioni  non previste e che si riteneva appartenessero ad un passato lontano.  La certezza di vivere in  un Mondo  altamente tecnologico, in un regno di sviluppo economico e finanziario sempre più saldamente legato al profitto e al denaro sembrava  poter realizzare l’aspirazione dei molti alla felicità, al benessere. Le crisi si sarebbero superate , il mercato avrebbe ritrovato gli equilibri giusti per correggere il sistema e perfino un’economia sostenibile ci  avrebbe  salvato dai cambiamenti climatici e dalla povertà. Il resto sarebbe stato  affidato allo sviluppo del virtuale, della comunicazione globale, dei network, dei cellulari, delle protesi tecnologiche. Tutto in una logica di crescita  lineare, produttiva economico finanziaria del capitalismo globale.  Quale grande illusione si andava così registrando. Davanti alle guerre, ai disastri, agli incendi, ai morti per mare, ai naufraghi, niente poteva reggere davanti alla fede incrollabile del sistema capitalistico aziendale delle nostre società avanzate. 


                                     


Oggi con la necessità di dover vivere interamente la solitudine, ripensare la propria esistenza e non cadere nelle trappole allarmistiche di una dittatura futura a cui proprio il Coronavirus ci sta abituando, nodi problematici antichi e odierni tornano al pettine. Con i provvedimenti adottati dal Governo e da una   commissione  di esperti, scelta non si sa con quali criteri, se non con quelli consueti del management aziendale di stato   si decide  sui nostri comportamenti  futuri. Tutto ciò a danno delle libertà  di ognuno di noi.  Si impedirà anche nel futuro di uscire di casa, di vedere i propri congiunti  se non appunto autorizzati da un sistema di controllo rigido, Sono a rischio non solo le libertà  ma anche le nostre idee , i nostri pensieri, la ragione, la nostra testa, tutto questo nel nome di provvedimenti necessari per salvare la salute pubblica. Si tratta di un terrorismo inusitato, nuovo e per qualche aspetto inconsapevole  che parte da una necessità contingente o   ancora una volta da una paura irrazionale, da una previsione non del tutto sopportata dai fatti. Niente ancora si sa di questo Virus e fino a quando non venga trovato un vaccino bisognerà  prendere provvedimenti restrittivi, di controllo su tutto il territorio. Questa è la risposta dell’Organizzazione mondiale della sanità e anche delle Istituzioni nazionali.




Che cosa è accaduto intanto al Mondo dell’arte prima e durante il Coronavirus ?  Il Mondo dell’arte fino ad ora non ha fatto altro che seguire  le logiche del dominio del capitale finanziario pensando poi di poterlo cambiare,  badando a difendere la libertà, l’autonomia dell’artista ma sempre all’interno di una regime della comunicazione mediale ben preciso e standardizzato. Le logiche del potere e del regime dell’arte erano sempre di più l’emanazione di un’alleanza indelebile tra il protagonismo dell’artista, il suo narcisismo e ambizione personale, la conquista del mercato, l’atteggiamento standardizzato dei suoi comportamenti. E l’opera dov’era ?  Essa era sempre di più un prodotto estetizzato, una merce di scambio, una cosa da fare entrare nel circuito della diffusione e del mercato dell’arte. Questo era. 

                        

E adesso cosa accade,  cosa fanno gli artisti, che cosa pensano ?  Già si preparano al dopo. In che modo ? Reiterando le stesse logiche di prima, gli stessi modelli ?  Sembra proprio di sì. Essi fanno a gara  per essere nella logica irreggimentata del sistema televisivo aziendale informatico con interviste, video, aste di beneficenza, aste televisive, viewing rooms, spazi espositivi sul web, tour virtuali 3D. Così l'arte rimane aperta al pubblico, disegnando, sembrerebbe,  nuovi scenari e modalità di fruizione


 Alcuni poi si pongono in una posizione descrittiva di quello che sta accadendo, come se il Coronavirus fosse qualcosa di rappresentabile, altri ripercorrono la strada del sociale, dell’arte sociale, dell’arte di denuncia, della religione. Tutti con l’ambiziosa tendenza camuffata in una specie di nuova stagione tecnologica di fruizione  al protagonismo personale  e accedere  dopo il Coronavirus ad  un’altra  fetta di mercato, questa volta più solidale, sociologica, massificata continuando ad avere la nomea  che finora gli stessi artisti di successo  hanno avuto.

                            


E’ triste   doverlo ammettere ma la risposta dell’arte a partire dagli artisti che la fanno sembra privilegiare la solita logica della finalità consumistica. Sono tutti protagonisti, tutti dicono la stessa cosa. Bisogna cambiare ma l’importante è non perdere la propria posizione come artista nella circolazione dell’arte e delle sue strategie di mercato. Ma come non era già da prima che queste logiche apparivano esauste, da superare e che bisognava cambiare ? Questo cambiare significa per molti artisti  essere protagonisti di questo cambiamento e non un sostanziale cambiare. C’è una bella differenza. Cambiare vuol dire mettersi in discussione, vuol dire esigere qualcosa dal linguaggio, esigere di essere, andare verso l’essenza delle cose e non arrivare prima sul traguardo della realizzazione. E’ quel che Spinoza definisce nell’Etica con la parola Conatus che non vuol dire solo sforzo ma esigenza e anche esporsi alla possibilità dello smacco. Il Conatus non  si esaurisce nella realtà fattuale, come se questa fosse una corsa,  ma contiene un’esposizione al naufragio  che va al di là di essa.  



Ciò che deve cambiare è il modo di pensare, significa  pensare  l’essenza delle cose, rispristinare un contatto con l’opera con la sua voce, la sua phonè. Se proprio è necessario fare qualcosa è proprio l’esigenza stessa come materia, ciò che offre un luogo e una sede alle cose che vengono ad essere, così scrive Agamben  nel suo libro: Che cos’è la filosofia. Questo pensiero sull’essere è ciò che l’artista dovrebbe cominciare a praticare a partire dallo stesso suo naufragio. Finché egli si sente centro dell’irradiazione creativa il contatto con l’opera si interrompe, il dialogo è chiuso. Ciò vuol dire che  il silenzio e la solitudine non sono serviti  a niente da un punto di vista di un’etica dell’arte. Né a  liberarci  dalle mode, dalle convenzioni sociali, né dagli schemi di un mondo votato al mercato e al profitto, ma solo a livellarci, a indurirci di più. Siamo ancora incastrati in una visione chiusa, asfittica  della nostra esistenza. Il che fare perciò  non si esaurisce con il fare ma su che cosa debbo fare che è anche la domanda  su che cosa posso sapere nel momento in cui io posso sperare su ciò che mi è consentito sperare nell’epoca del Coronavirus. 

                                 

Se una possibilità esiste per l’artista del futuro, essa consisterebbe  nel rinsaldare l’opera con un progetto etico spirituale, nel concepirla come naufragio del già stato, scacco di quel che era, appunto Conatus della storia e dell’essenza dell’arte che appunto così si rivela. Se c’è una lezione da apprendere da questa epidemia che  scopre ancora di più il nervo aperto di  una crisi di valori e di essenze   è proprio quella di porsi in una condizione che trascende i modelli attuali, li disarciona, li rende inservibili. Dal protagonismo al ritiro, dall’estetica all’etica, dall’eccesso all’interiorità, dall’ombra alla luce. Il come si fa è una domanda che riguarda gli artisti e a loro è consegnata la risposta che ora diventa una necessità storica, genealogica  e archeologica. Altro che il baloccarsi dentro il giardino vuoto del proprio narcisismo e dei giochini fantasmagorici o nascondersi dietro il salottino delle interviste sociali.      

                                  


 Immagini:
0 Ritratto di Francesco Correggia
1  Santa Veronica Giuliani Monastero  di città di Castello
2  Ivan  Kramskoj,  Cristo nel deserto., 1872
3  Mattia Preti,  Deposizione di Cristo dalla Croce, 1660 ca 
4  E.  Delacroix, canotto di naufraghi  1846
5 Naufraghi oggi nel mediterraneo
6 Coco Channell Ryder, No panic, 2020
7 Viewing Rooms, 2020
8 Ritratto di Baruch  Spinoza
9  Francisco de Goya YHWH, 1772
10 Francesco Correggia, Si cela,  2017


 4