La metaforica dei bordi. Naufragio e trascendenza
Ho sempre
pensato che la metaforica del naufragio fosse rivelativa rispetto al vissuto
dell’artista. Il mare e la navigazione, il rapporto con la terraferma sono
indici della problematicità della relazione fra artista e opera. Sono la pagina
bianca. Se è vero che l’opera non è mai compiuta e che essa ci lascia
nell’incompiuto nel cui spazio muoriamo come scrive Edmond Jabès è anche vero
che la metaforica del naufragio è assimilabile a quella dell’opera dove i
nostri vocaboli costellano le notti del pensiero tra mare e cielo. Due premesse
caratterizzano la pregnanza della metaforica di navigazione e naufragio: il
mare come confine assegnato dalla natura verso l’ignoto che caratterizza lo
spazio dell’impresa umana e d’altra parte la sua sfera dell’imprevedibilità,
dell’anarchia del disorientamento. Ci sono altri elementi caratterizzati dalla
liquidità: l’acqua e il denaro, quest’ultimo è caro ai mortali come la
vita. In quest’ambito immaginativo il
naufrago è una specie di figura legittima della navigazione mentre il porto o
la calma di mare sono l’aspetto ingannevole di una contrapposizione tra una metaforica
dell’esistenza disponibile al guadagno e la sua paradossale ed interminabile
crisi. Mentre chi affronta il mare sa
del rischio che incorre e non teme il naufragio chi resta sulla terra ferma entra in un’ottica che non è estranea a quella
dello spettatore. Essa è assimilabile
alla figura di chi guarda l’opera d’arte o meglio a quella del collezionista.
Egli è come un estraneo e tuttavia è partecipe, osserva con attenzione tutti
gli elementi che possono essergli utili, su cui approfondire e magari fargli
decidere per l’acquisto dell’opera, ma preferisce non coinvolgersi nella sfida
che l’artista intraprende con l’opera e con i suoi marosi.
La figura
del naufrago è solo possibile se ha un osservatore esterno che guarda inerme la
sua lotta per sopravvivere. Molte volte il naufrago vi riesce e si costruisce una nave con i resti del naufragio. Con lo spettatore si chiude lo schema della metaforica del
naufragio e se ne apre un altro quello della trascendenza. Scrive Blumenberg: il fenomeno metaforico e il fenomeno reale dell’attraversamento del
limite della terraferma alla volta del
mare, si sovrappongono uno all’altro, come il rischio metaforico e il rischio
reale del naufragio. Ciò che spinge l’uomo sul mare aperto è anche la
trasgressione del limite dei propri bisogni naturali. Tuttavia bisogna
considerare che tutta questa metaforica è
intrisa di uno spirito romantico. Ci si spingeva in mare alla
ricerca di un cambiamento, di una possibilità.
Non era solo un modo per fare
fortuna. Si trattava del proprio rapporto con il mondo e i naufragi erano il prezzo da pagare.
Ora il
mondo è capovolto si rischia il naufragio non per fare un’esperienza letteraria,
per affrontare le forze incontrollate dei venti e dei mari e sfidare la
natura ma si
fugge via per necessità. Si affronta il mare aperto anche in brevi ed
estenuanti traversate per fuggire dalla guerra nei propri paesi, per sopravvivere.
La metaforica del naufragio si aggancia a quella dell’esistenza, alle problematiche planetarie,
ai flussi migratori, alla fame nel
mondo.
Qui
l’ottica s’inverte. Il naufrago si dispone ai bordi dell’esistenza e gode del frutto di quella sregolatezza, di
quel destino che lo condanna a prendere
ancora il mare. L’artista nella metaforica del naufragio non si offre più allo
spettatore che lo guarda mentre fa naufragio
ma lo oltrepassa. La trascendenza
è la nuova condizione del navigante
dell’arte e del farsi una nave con i resti del naufragio dal suo bordo; un bordo di altri bordi. Egli
riesce a navigare ancora sul mare, nonostante i naufragi subiti e non ha più
spettatori che standosene all’esterno guardano indifferenti il naufragio.
Il bordo
non è la cornice di un quadro o stare al
bordo di essa, ma è stare in bilico, nella sponda, nel confine fra l’interno del quadro e il muro.
Fra la pittura e ciò che la contiene e la fa essere altrove. Il bordo è
l’altrove del quadro, è lo stesso attraversamento, non è mai cornice che invece racchiude ma non apre al
muro, e cioè all’immensità del naufragio e della sua metaforica.
Stare ai
bordi significa vivere nel limite, sopravvivere al naufragio e guardare a sua
volta lo spettatore che ha perso la sua possibilità di contemplare ciò che è
altro, che lo trascende. Ora entrambi, il naufrago e lo spettatore, sono ai bordi di ciò che li trascende tra il
mare e la terraferma. Scrive Jaspers:
L’esistenza è in grado di comprendere se stessa nella sua libertà solo
quando percepisce, nello stesso atto, ciò che è altro da essa. L’incondizionatezza e i modi dell’essere appaiono per la
metaforica nautica come prospettive per
il pensiero.
Il pensiero
stesso diventa l’essere. L’essere dei modi della trascendenza si separa dall’immagine e dal vedere, nel mare dell’opera e della sua sparizione.
E’ da qui che l’artista/naufrago costruirà la sua opera futura con che quel che resta del naufragio, la
nave che lo porterà sulle rive della possibilità. Il naufrago non
pretende la salvezza ma solo la possibilità di tornare ad essere nella
trascendenza. Solo nel naufragio di quella ricerca , che voleva incontrare l’essere
puro e semplice si giunge al pensiero sull’arte.
A quel pensiero che parte dall’esistenza possibile. E’ il suo metodo
alla trascendenza che inverte la rotta dell’artista/naufrago verso
approdi inusitati.
Il mare aperto dell’opera pretende il
silenzio, la non rappresentazione, la rinuncia a ciò che produce corruzione e inquinamento.
Pretende che essa non venga vista e osservata, ma sfiorata nel suo essere per altro sui bordi dell’esistenza, in quel porto della
trascendenza cui essa aspira. Un non
ente.
L'essere, non è un
ente immutabile che risponde a rigide leggi logiche oggettive e
deterministiche, ma un'ulteriorità, un qualcosa che sempre si arricchisce
di significati, che si mostra, ma nel mostrarsi comunque si allontana dalla
possibilità di una definizione definitiva. Il bordo è stare in bilico sul nulla
e pretendere di attraversarlo, di coglierne la cifra.
L’esserci
così si rende visibile solo nella trascendenza. Se io permango in essa allora sono veramente capace di restare in
piedi e guardare il volto dell’altro, di essere pieno nella
perdita, vuoto nella sazietà, senza punto di riferimento nel succedersi dei
giorni eppure così vivo. Sono finalmente
nella finitezza pur pensando l’infinito. Sono, dunque, capace di ricominciare
con quel che resta del naufragio. Infine
stare ai bordi vuol dire essere naufrago
ma al contempo spettatore. Naufrago perché prima o poi le onde, le tempeste ti
faranno vacillare e cadere dal bordo. Spettatore perché tu stesso assisti al
tuo naufragio, poiché non c’è più nessuno fuori che può vedere, da dove puoi guardare.
Non c’è salvezza ma solo l’abissale calarsi
del fuori nel dentro, nell’immanenza della propria posizione, dove niente si
può distinguere e solo la trascendenza può raccogliere i pezzi di quel che
resta del naufragio.
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