Thursday, June 8, 2023

L’arte contemporanea, l’ecologia e l’emergenza climatica

Di recente mi sono imbattuto in due libri diametralmente opposti fra loro per contenuto, pensiero e scrittura. Tuttavia mi hanno molto fatto riflettere sulla condizione umana e soprattutto sul pensiero dell’arte, posto che oggi se ne possa parlare. Proprio perché opposti, la lettura dei due libri, debbo confessare, è stata molto faticosa. Si ratta del libro recente di Hans Ulrich Obrist dal titolo: A che cosa serve l’arte e del libro di Gunther Anders (Stern) L’uomo è antiquato. Il libro di Obrist è stato di facile lettura, l’ho letto in due giorni. In realtà avevo dei dubbi se comprarlo o no poi mi sono deciso.
Il titolo si spiega già da sé. Fa parte dei numerosi libri sull’arte contemporanea che pretenderebbero di dire qualcosa sul senso e sull’utilità dell’arte e che poi si esauriscono in risposte non risposte, in manuali di consenso, in pubblicità dei nomi degli artisti di cui si parla con cura nel libro. È la solita réclame di un prodotto. Qualcosa di spettrale tra l’ingenuo e il sofisticato. Eppure i due volumi di interviste di Obrist pubblicati anni prima furono non solo una fonte d’informazione notevole ma centrarono molto bene il bersaglio su che cosa intendevano fare gli artisti, perché lo avevano fatto e su che cosa pensavano. Ho poi ritirato dalla biblioteca Sormani i due volumi dal titolo: L’uomo è antiquato di Gunther Anders (Stern), libro che avevo già letto in gioventù e che avevo bisogno di rileggere proprio in questo periodo così difficile. Si tratta di un filosofo tedesco allievo di Martin Heidegger e Edmund Husserl. In questi due saggi il filosofo analizza l'inadeguatezza dei sentimenti umani in relazione alle macchine e alla tecnica.
Perché ho deciso di scrivere qualcosa a proposito di queste due mie recenti letture? Per metterli a confronto? No di certo. Quello di Obrist è un volumetto semplice, quasi un racconto delle sue imprese, niente a che vedere con lo spessore dei due volumi del filosofo Anders. Non è su questo che mi voglio soffermare bensì sulle note dolenti e contradditorie di alcune tesi di Obrist scaturite dopo una riflessione dei saggi di Anders. Obrist scrive che viviamo in un mondo fatto di discipline che in realtà sono industrie, e anche il mondo dell’arte è un’industria. Gli altri settori, dalla musica alla letteratura, all’architettura hanno seguito questo modello e le industrie confinano le persone in settori diversi che non sono capaci di avviare una conversazione fra loro, un confronto su questioni essenziali per il nostro pianeta come l’emergenza climatica. Su questo non ci piove. L’obiettivo di Obrist è spezzare queste catene invisibili, creando delle situazioni in cui sia possibile mettere in comune le conoscenze. Certamente questo è un nobile obiettivo se non fosse che l’industria oggi ha a che fare non più con persone ma con macchine, calcolatori intelligenti, algoritmi, modelli di sviluppo, piani aziendali di investimento e guadagni. L’arte è diventata un’industria suo malgrado con il consenso degli artisti sempre più accecati dal successo. Dunque, come si fa a sostenere che gli artisti contemporanei con la varietà dei loro linguaggi possano introdurre nel mondo una forma di speranza, una forma di resistenza al progressivo uniformarsi dei modi di vivere, cercando una specie di salvezza con il tema dell’ecologia e dell’emergenza climatica? Sono in malafede o non si rendono conto?
C’è aria di conformismo in tutto questo. Si tratta di un conformismo mascherato degli esegeti dell’arte contemporanea e degli stessi artisti che li seguono nel loro furore di riconoscimento e di visibilità immediata. Essi vanno sbandierando l’ecologia come tema dell’arte non comprendendo del tutto la tragedia di questo nostro mondo che va verso l’apocalisse. Che cosa dice Obrist, tra l’altro sostenuto da un curatore nostrano dal nome di Gianluigi Ricuperati di tanto sconcertante? Si capisce che sono della stessa squadra e lo si intuisce dal nome degli artisti osannati dal libro.
Ora veniamo al dunque. Obrist sostiene che gli artisti contemporanei affrontano la questione ecologica sollevando il tema dell’ambiente e del cambiamento climatico e ciò fa ben sperare per il futuro. L’arte contemporanea per lui sarebbe chiamata a creare le condizioni in cui è possibile avviare degli archivi di queste conoscenze, delle maratone di saperi condivisi dove ci si interroga sul futuro. Fa un lungo elenco di artisti che lavorano in questo senso. Arte e Architettura, narrazione non lineare ed evoluzione cognitiva, scienza, arte e musica s’intrecciano magicamente in una maratona continua che dovrebbe aprire le coscienze individuali sulla questione dell’ambiente, del cambiamento climatico e della salvezza del pianeta. Obrist si è inventato spazi improbabili, dalla cucina del suo albergo a hotel di lusso fino ad arrivare a curare mostre alla Serpentine gallery, noto spazio istituzionale londinese e ora lancia una nuova sfida attraverso quelli che lui chiama Archivi del futuro. Obrist è certamente una figura di curatore notevole nel panorama attuale dell’arte contemporanea e la sfida da lui lanciata fa riflettere e apre questioni importanti.
Lasciatemi dire che, nonostante apprezzi molto la sua capacità di seguire gli artisti ed inventarsi spazi espositivi nuovi e molte volte fuori dal circuito dell’arte, mi sembra che le sue tesi siano una specie di trovata dell’ultima ora, un atteggiamento oggi abbastanza diffuso che consiste nel tentativo di avere attenzione dai media, di cavalcare l’onda mediatica su problematiche complesse e di enorme attualità. Vorrei ricordare ad Obrist che non sempre la tematizzazione porta in primo piano la complessità del tema e che c’è una certa differenza fra tema e tematizzazione come scrive Levinas in totalità e infinito. Tematizzare molte volte non vuol dire riconoscere, portare a conoscenza, ma sfuggire, annebbiare chi legge. Certo gli artisti citati nel libro sono orientati verso una ricerca oggi ineludibile su che cosa fare per frenare il cambiamento climatico. È altrettanto vero che anche questo affrontare un tema così decisivo appare come un tentativo di far colpo nel mondo dell’arte, sui collezionisti e sullo stesso sistema finanziario e arrivare al successo e alla visibilità, al narcisismo mediatico. Dopo la sceneggiata iniziale tutto rimane inalterato e le Istituzioni culturali e lo stesso mercato dell’arte non fanno altro che annullare la portata significativa del tema che si vorrebbe annunciare continuando nel rito dell’appiattimento globale, nel trattare l’opera d’arte come merce. Non è certo vestendo l’abito del monaco che si fa un monaco oppure costruendo giochi come se ciò fosse una cosa seria. Ci vuole ben altro. In questo senso mi è sembrato straniante e insieme istruttivo rileggere i due libri di Anders .
La riflessione di Anders sui pericoli che corre l’umanità intera mi è sembrata all’improvviso, appropriata per smontare alcuni luoghi comuni e vizi interpretativi che nel libro di Obrist appaiono evidenti. Il primo fra tutti è continuare a pensare che l’arte debba avere un senso o non averlo proprio: il famoso senso e non senso. Nell’era delle macchine e degli apparecchi che producono immagini delle immagini a pieno ritmo, non solo non vale più la pena richiamarsi al senso ma è inutile, poiché è proprio in questo meccanismo riproduttivo dominato da fantasmi che esso è sparito e non tornerà mai più. Il consumismo, le macchine e la pubblicità hanno ridotto l’uomo ad un servo. Servo di che cosa? della produzione macchinica, dei media tecnologici dell’alta finanza. Il senso di oggi è un monopolio a cui siamo costretti e non una ricerca della verità che appare inconfessabile. L’arte contemporanea non è più un ritrovare un senso, un gioco serio ma uno specchiamento della tecnica uno strumento di propaganda ripetitivo che riconsolida il conformismo delle pratiche dell’arte. Il senso non è più un segreto da disvelare bensì un’etichetta ben preparata e confezionata. Ne abbiamo fatto un progetto senza nessuno che progetti, l’abbiamo de-deificato, scrive Anders. Esso è diventato un mezzo e non un fine, di che cosa poi se non dello stesso mezzo che riproduce sé stesso un’infinità di volte? Non è giocando a scacchi che si risolve la questione della sfida che ci attente. Non c’è più tempo per continuare con giochi e sogni.
Anders per raccontarci tutto ciò parte da lontano e cioè dalla vergogna che lui chiama prometeica davanti lo strapotere della tecnica e dell’era digitale. L’uomo è schiavo delle macchine che non può più controllare poiché l’intelligenza artificiale, la macchina robotica, il mondo della tecnica e delle immagini ci comandano, non solo riproducendosi, ma annullando le cose e il sentimento della natura attraverso la riproduzione costante di copie delle copie del reale. L’uomo, novello prometeo scrive Anders è subalterno rispetto al mondo delle macchine che lui stesso ha creato e che non riesce più a controllare. Egli va verso l’automatizzazione scivolando nell’abisso dell’incomprensione e dell’autoannientamento. L’uomo va verso l’apocalisse perché è il sistema produttivo ed economico, fondato sulle leggi del mercato, del capitalismo finanziario che ha fatto scempio della natura sfruttandone fin troppo le risorse e provocando un disequilibrio ambientale mai visto prima. Ed è proprio questo sfruttamento, questa capacità tecnica di dominio che ha portato al cambiamento climatico e forse ci porterà alla fine del genere umano. Produciamo sempre più armi sofisticate e distruttive. Il nucleare è ancora una minaccia incombente e il petrolio continua ad essere la nostra bestia nera mentre nuovi scenari di guerra si prospettano all’orizzonte.
Le stesse macchine sono come sibille pirotecniche che ci assediano e non ci fanno pensare. Esse producono immagini, fantasmi sostanzialmente irreali di fronte ai quali siamo passivi. Non sono più al nostro sevizio per aiutarci a superare le difficoltà e migliorare il genere umano. Il mondo dell’arte contemporanea di cui scrive Obrist non fa che seguire questo intreccio fra immagini e tecnologie, persuasione e fallacia, verità e falsità, seduzione ed edulcorazione. Quello che lui chiama la molteplicità dei linguaggi nell’arte contemporanea, la sua mondializzazione non è altro che standardizzazione, adesione a un principio unico, la sottomissione dell’uomo al consenso e al conformismo. Ecco perché nell’arte ci sono fatti senza interpretazioni. Il fatto è che ciò che sembra accadere non accade veramente ma si presenta come un fantasma tradendo lo stesso accadimento che diventa insensato se non nella sua insensatezza finale e cioè la distruzione. In questo senso i media e il consenso generalizzato sono i prodotti del nostro vivere quotidiano che traducono il mondo in immagini, la realtà in farsa consegnando l’uomo alle macchine e al monopolio di un regime mediatico perfetto. Si tratta di prodotti incandescenti destinati a sparire e a riprodursi in altra forma continuamente nella logica fatale del consumismo, delle vendite, della pubblicità e delle guerre trasmesse nelle reti televisive come prodotti del trattenimento di massa, come merce.
Non è avviando una conversazione o scambiandoci letterine sulla salvezza del pianeta o giocando a scacchi secondo le regole del gioco che riusciremo a risolvere il mostruoso enigma che oggi si ripropone e invertire la rotta del disastro ambientale. Stiamo diventando tutti operai e servi di questo potere irrazionale e macchinico che si riproduce. Siamo come apprendisti stregoni di spiriti che una volta evocati non avranno pietà di noi. La razionalità del mondo produttivo si trasforma in irrazionalità incomparabilmente peggiore di qualunque altro precedente. Distruzione o salvezza, quale senso dare alla vita? Questa è la domanda che dovrebbero porsi oggi gli artisti sul che cosa fare.
Cambiare la propria vita, sottrarsi ai media, e allo splendore della tecnica, un fare arte che si sottrae allo stesso fare, sottrarsi allo sfarzo spettacolizzato, praticare l’umiltà, con virtù etica, fare a meno della réclame del proprio lavoro, della spettacolarizzazione integrata, interrogare la pittura, oppure adeguarsi al conformismo, alla logica del consumismo spettrale, alla logica distruttiva dei modelli dominanti e perire. Insomma si tratta di cambiare la propria vita. Gli artisti sono davanti a questo bivio, ancora una volta come davanti al bivio di Heracle raccontato nei Mirabilia da Senofonte. Ci vuole ben altro per sensibilizzare le coscienze di tutti sul cambiamento climatico. Ci vuole un atteggiamento etico sostanzialmente virtuoso e irriducibile fuori dagli schemi uniformi e convenzionali dell’arte contemporanea.
Immagini: 1 - Dominique Gonzales Foerster, Tapis-de-lecture-2000 2 - Emilio Prini, allestimento Osart-Gallery 3 - Jan Cheng, Cheng’s Emissaries trilogy 2015 4 - Douglas Gordon Play Dead Real Time 2003 6 - Tacita Dean, The Wreck of Hope, 2022 7 - Donald Sultan, big yellow, 2014 8 - Hans-Peter-Feldmann- Frauen-Tipibookshop 9 - Gustav Metzger , demonstration of auto destructive art 2004 10- Koo Jeong – A, Cedric Tate gallery 2003 11- Etel-Adnan-Landscape-2014 12 - Francesco Correggia, hospital, 2020

No comments:

Post a Comment