Monday, December 27, 2021
conclusioni inaspettate
Nato alle ore 12,30 del 27 dicembre del 1949 sono stato registrato all’anagrafe del comune di Catanzaro il 3 Gennaio 1950. Questa che sembra una dimenticanza di poco conto mi ha accompagnato per tutta la vita. Nell’intento di mio padre avrei dovuto guadagnare un anno rispetto al servizio militare in realtà più che allungare la mia vita sono cresciuto fin dai primi anni con l’idea del suicidio in testa. Così come mi hanno accompagnato per tutto questo tempo una sistematica ricerca della verità e un’esistenza sempre in bilico tra l’incertezza e la voglia di viaggiare per sottrarmi al male di vivere. In questo senso la cosa e cioè l’esistenza e la navigazione in mare, l’amore per l’arte, il quadro e la lettura si sono incontrati a livello tale che molte volte il viaggiatore, il pittore e lo scrittore si sono intrecciati lasciando il mio io quasi nullificarsi rispetto ad una dimensione sempre altra e inciampando spesso in una specie di pessimismo verticale.
Così oggi sarei tentato a mettere la parola fine alla mia attività di blogger e forse anche di scrittore. Credo di avere esaurito, ogni mio tentativo, ogni mio desiderio di scrivere quel qualcosa che valesse la pena di essere letto, quel qualcosa che sembrava mancare alla pittura, ma anche all’arte tutta. Il non avere lettori mi costringe ora a sostenere che il mio è stato un fallimento reale e non una mia interpretazione pessimistica della vita. Era al lettore che erano rivolti i miei scritti o a un ipotetico lettore che forse ero io stesso aspirante suicida?
Con questa specie di dubbio e di abbandono dipingo le mie ultime tele. Mi avvio ad un periodo di silenzio, di disperazione felice che mi fa dire: se nessuno mi legge, come nessuno sembra comprendere la mia pittura tanto vale smettere. Questa conclusione comunque rimane sospesa e apre un’altra riflessione, quella che ha accompagnato tutta la mia vita, quella sulla morte e sull’esilio. Morire vuol dire anche sentirsi eternamente in esilio e al contempo non occorre suicidarsi per morire. Levarsi di vita vuol dire anche fare a meno del mondo, sottrarsi al suo aspetto spettacolare, alla comunicazione e alla presenza il che non coincide sempre con la decisione di morire. Farla finita, praticare la distanza è piuttosto un alto esercizio di virtù, significa allontanarsi da tutto ciò che ci costringe a vivere: dalla vita come suggestione, come competizione, produzione, professione di eternità.
Pensare al suicidio non vuol dire suicidarsi per davvero ma pensarlo in ogni sitante della propria vita come uscita dal mondo, possibilità. Non si tratta una vigliaccheria per nascondere un fallimento o un voltare le spalle al vero morire, ma qualcosa che si compie qui, nella vita di tutti i giorni, nell’affanno, nella rinuncia e sofferenza ma anche nella gioia. Tutto è vano sembra indicarci il libro di Qohelet. Le sue parole appaiono ancora scandalese non per quello che dicono e che trasportano come materia corrente di interpretazioni già al suo tempo in ambienti religiosi, ma per la loro drammatica presenza, direi per la loro funzione disvelatrice.
Sul tutto è calata la nebbia. Niente redenzione e salvazione dalla corruzione ma proprio il nulla, il sempre ostinato silenzio che è già qualcosa ma non acquieta il nulla. Piuttosto dovremmo essere noi a interrogare noi stessi nel vuoto della natura umana. L’importante è non aspettarsi niente, morire ogni giorno con pazienza e umiltà. In questo senso anche lo stare da soli o vivere in solitudine, in silenzio, senza un amore, una speranza, può essere di fatto una condizione felice: un vivere per sé e in sé, il che è anche, come pensavano gli stoici, un vivere per altro. Niente di nuovo sotto il sole.
Chi cerca il suicidio nasconde un male ancora più oscuro del desiderio di morire o di quel nulla che sembra aleggiare nelle parole del libro e nella condizione dell’esiliato. Esso, in realtà, porta il proprio egoismo ad una vetta ancora più alta e cioè alla consapevolezza dell’inutilità dell’opera, della ricerca della verità anch’essa vana. Vi prego non fraintendetemi non intento suicidarmi. Vi sono gesti nella vita di ognuno di noi, gesti irreparabili e irresponsabili, No, non amo i grandi gesti risolutivi anche se da giovane pittore praticavo l’arte gestuale.
Preferisco cambiare casa ogni qualvolta mi si presenta il dubbio, ovvero ogni volta che dall’idea si è quasi portati alla pratica, dove il suicidio diventa una necessità, espressione umana di consapevolezza della vanità. Così in questi ultimi venti anni ho cambiato molte volte casa, affrontando traslochi paurosi di libri e quadri. Trascurando quei brevi periodi della mia vita in cui ho abitato per poco tempo dopo il mio arrivo a Milano nel 1985 in appartamenti precari; dagli anni novanta in poi ecco l’elenco di case dove ho abitato all’incirca per più di due anni: Via Gramsci Cormano, Palazzo Pozzo Bonelli Vermezzo, a Milano in Via Villoresi, Via Lorenteggio, Via Rubens, Via Poggibonsi, via Panizzi, via Faruffini, via Brembo. Ho avuto studi di pittura che hanno resistito un po’ di più come in via Cirillo, Ripa di porta ticinese, Via Gaetano Previati. Poi ho dovuto ricavare il mio studio di pittura a casa, o meglio è stata la casa a diventare il mio studio, Tutte scappatoie o mancanze che lasciavano aperto un qualche spiraglio di cambiamento. Ciononostante nessuna casa era in qualche modo adatta a guarirmi dal mal di vivere.
Abitare voleva dire vivere senza pensare alla morte senza praticarne l’idea come soluzione finale, rimandandola di volta in volta, per quel vuoto che è abbandono al niente qui su questa terra e non altrove. Ciò che attrae è proprio quel nulla che invece di rigenerarsi ci offre inaspettata la bellezza, quella dei segni, quella che sta al di qua e al di là delle cose, non oltre. Sono loro che restano e riempiono di senso la nostra vota. Sono i segni che lasciamo e che non appartengono più a noi a farci uscire dall’ineluttabilità della fine. Essi sono i veri corpi del destino che si depositano nella storia umana e collettiva di ognuno di noi. Forse questo c’è qualcosa oltre, non è altro che la bellezza del segno, questa sinfonia della significanza, liberatoria di umanità.
L’etica non è più imperativo morale, imposto da una trascendenza che ci domina, da una sorta di valore escatologico ma questo iscriversi dei segni nella tavola del diritto umano, nella congiunzione del destino umano non più con il vuoto ma con lo stesso senso della vita. Il valore sarebbe inseparabile da questa etica del diritto ai segni, del diritto alla vita come lascito, donazione. Da sotto la terra non si rinasce e il cielo rimane inalterato, è sempre un sopra che non vedremo mai, ciononostante l’opposizione fra cielo e terra, segno e immagine va superata e noi abbiamo di pretendere il diritto alla significazione.
L’uomo stesso è un segno, non tanto del divino ma del suo essere segno, del suo portarlo, del suo mettersi in cammino verso un segno e ancora un altro segno. Sono i segni a sfidare la morte e a ergersi non solo come testimonianza ma come tepore e significanza, verso quel Dio che da tempo ci ha abbandonati o forse siamo noi ad averlo fatto. Non è con il mostrarsi nel palco dei protagonisti, degli emergenti e celebrati artisti dell’arte contemporanea che ci si avvicina a quella pienezza dell’essere sempre in bilico con il nulla, a quella sostanziale presa sulla realtà, che esprime il corpo dell’arte, ma nel lasciare un segno, seppure breve di un’interpretazione, l’istanza di una relazione di rappresentanza. E’ proprio questa relazione che misura il nostro tempo.
La bellezza autentica, sempre che nel nostro mondo possa esistere qualcosa di autentico, non è altrove ma sta nel nostro diritto ai segni, nel lasciare segni che si iscrivono nella geografia del senso e del tempo duraturo. Ciò dovrebbe essere il compito di un pittore e non il sorvolio fragile della sua passione verso la pittura oppure l’attività frenetica del proprio esserci nell’immanenza della comunicazione pubblicitaria, come un vero artista professionista. Questa è la ragione per la quale sarei tentato dall’assenza a non dalla presenza. Forse è arrivato il momento di cambiare ancora casa e riprendere quell’antica distonia dell’esistenza, di creatura inciampante tra senso ed essere.
Immagini
1 Francesco Correggia , letture, MAON, 2019
2 Georges de la Tour, Maddalena penitente, 1640
3 Von Ruisdael, la grande foresta, 1655
4 Paul Cezanne: Roches pres des grottes au dessus du chateaux noir, 1904
5 Foto di Egoni Schiele, 1914
6 Kazimir Malevich, White on White , 1918
7 Mark Rothko Blue Over Red, 1954
8 Makoto Fujimura, Banquo’s dream, 2012
9 Albert Oehlen, senza titolo, 1994
10 Cristopher Wool, senza titolo, 2000
11 Ursula Matinez, Hanki Panky, 2002
12 Francesco Correggia, bianco con cancellatura, 2009
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